Per mons. Maurizio Barba, liturgista, il pranzo con i poveri in una chiesa, riportato in auge da Papa Francesco nel suo viaggio a Bologna, non è una novità. Il povero è “un altro Cristo”, non c’è separazione tra il “sacramento dell’altare” e il “sacramento del fratello”.
Non una novità, semmai una tradizione: che ha le sue radici nelle prime generazioni cristiane. Mons. Maurizio Barba, docente di liturgia al Pontificio Istituto Liturgico del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, spiega così la consuetudine del pranzo con i poveri in chiesa, riportata in auge di recente da Papa Francesco durante il suo 17° viaggio in Italia. “Solo una Chiesa solidale”, spiega, “è una Chiesa solida”.
Il pranzo con i poveri nella basilica di san Petronio resterà una delle immagini memorabili del viaggio del Papa a Bologna. Si tratta di una novità assoluta?
Aprire le porte delle chiese al banchetto per i poveri non è una novità assoluta per la storia della Chiesa, così come l’attenzione per i poveri non è una cosa insolita nel pontificato di Papa Francesco.
La Chiesa apostolica ha preso sul serio l’esempio di Gesù di soccorrere chi ha fame e chi ha sete e l’ha legato abitualmente all’Eucaristia: negli Atti degli Apostoli, si legge che la “frazione del pane” deve essere accompagnata dalla condivisione dei beni materiali. San Paolo lega la carità per chi ha fame con la celebrazione eucaristica: a Corinto era preceduta da un’agape fraterna. Ai Corinti, che nella cena non condividevano il pane con i poveri, perché considerati indegni della loro tavola, san Paolo ricorda l’amore sconfinato che ha spinto Cristo a istituire l’Eucaristia, intesa come memoria di una vita spezzata per gli altri. Per Paolo l’Eucaristia è legata alla solidarietà: basti pensare alla colletta organizzata da lui per i cristiani di Gerusalemme. Giovanni Crisostomo narra che alla fine della riunione sacramentale, invece di tornare tutti alle proprie case, i ricchi invitavano i poveri e tutti sedevano alla stessa tavola apparecchiata nella chiesa stessa. Gregorio Magno ha aperto le porte della chiesa per far mangiare i poveri, in una situazione di particolare difficoltà per la città di Roma, e anche la vecchia basilica costantiniana di san Pietro aveva questa funzione, così come raccontato da Paolino da Nola.
L’attenzione ai poveri non è estranea al pontificato di Papa Francesco: egli parla continuamente della “cultura dello scarto” e di “scelta preferenziale per i poveri”: la frase di inizio del suo pontificato – “come vorrei una Chiesa povera per i poveri” – è il programma che Gesù stesso rese noto nella sinagoga di Nazaret. Durante il Giubileo, inoltre, Francesco ha istituito la prima Giornata mondiale dei poveri, che celebreremo il 19 novembre.
C’è un rapporto tra simbolo eucaristico e città degli uomini?
Non c’è dubbio che il pane e il vino posti sull’altare siano sacramento, segno efficace che realizza pienamente la presenza del corpo e del sangue di Gesù. Nell’Eucaristia il sacrificio di Cristo diviene pure il sacrificio della Chiesa: la vita dei fedeli, la preghiera, il lavoro, le gioie e le sofferenze sono uniti a quelli di Cristo e alla sua offerta al Padre, per cui acquistano un valore nuovo.
Tra Chiesa ed Eucaristia esiste un rapporto di stretta congiunzione: quando il cristiano riceve il pane eucaristico, riceve il corpo del Signore che ha voluto incorporare a sé tutti gli uomini. Riceve in qualche modo anche se stesso, la Chiesa intera, coloro che condividono con lui la stessa fede.
L’Eucaristia diventa così il sacramento dell’unità della Chiesa: mangiando l’unico pane, i fedeli sono in comunione sia con il Signore che tra di loro. Per Giovanni Crisostomo, la solidarietà è un sacramento, il segno della presenza di Cristo nel mondo:
il povero è “un altro Cristo”, il “sacramento dell’altare” deve prolungarsi nella vita quotidiana con il “sacramento del fratello”; non c’è separazione tra questi.
È il Vangelo che ci spinge ad essere servi dei poveri: la carità per il cristiano non è esercitata in nome di un umanesimo anonimo, o di una solidarietà generica, ma in nome di Gesù e del Vangelo.
La liturgia eucaristica è anche liturgia del corpo?
Se vogliamo incontrare Cristo, è necessario che tocchiamo il suo corpo in quello piagato dei poveri, scrive il Papa nel messaggio per la Giornata mondiale dei poveri. L’Eucaristia manifesta un’etica di donazione, di condivisione e di solidarietà. Paolo chiama la colletta per i poveri koinonìa, termine collegato al verbo greco koinoō che vuol dire pure “contaminare”, “profanare”: la carità, dunque, è come un contaminarsi della condizione dell’altro perché ci si è coinvolti nella sua situazione. Il risvolto operativo della koinonìa è la solidarietà, termine che deriva dal verbo latino solidare da cui anche l’aggettivo solidus. Nella cosiddetta “modernità liquida” in cui viviamo, manca qualunque riferimento solido per l’uomo di oggi. “Solidarietà” è il sostegno reciproco al modo in cui ogni parte di un solido è retta e tenuta salda da tutte le altre: nessuna è indipendente o isolata.
Quando non ci curiamo di qualcuno che sta male o è nel bisogno, nel solido si apre una fessura e aggiungendosi fessura a fessura il solido perde consistenza e si sgretola. Solo una Chiesa davvero “solidale” è una Chiesa “solida”!
Mangiare insieme ai poveri in una chiesa è anche un messaggio forte sul legame intrinseco tra liturgia e carità.
La chiesa, spazio della presenza sacramentale di Gesù tra gli uomini, è anche il luogo in cui si onora il corpo di Cristo nel corpo dei poveri. C’è una dimensione di ospitalità che l’edificio Chiesa ha assunto nel corso della storia e che può arrivare anche a prendere le forme di un pasto condiviso. Basti pensare alle grandi cattedrali del Medioevo, luoghi di accoglienza di forestieri e pellegrini: vi è, dunque, anche una dimensione ospitale dello spazio liturgico che la Chiesa ha sempre conosciuto. Si tratta di un atto emblematico che sta a significare che la charitas cristiana scaturisce dall’altare, dall’Eucaristia, per cui ha un fondamento teologico, e il fatto che venga esercitata in uno spazio liturgico ne è l’epifania.
Se non ha la sua radice in Cristo, la carità diventa una semplice forma di assistenzialismo o di ideologia. Liturgia e carità esigono un rapporto armonico che trova in Cristo la sua unità: non bisogna assolutizzare né l’una né l’altra, né separare l’una dall’altra. Se si stacca dalla carità, la liturgia diventa autoreferenziale; se si separa dalla liturgia, la carità perde il suo riferimento fontale, che è l’amore di Dio, e si riduce a filantropia.
Fonte agensir.it/M.Michela Nicolais