Originario di Serino di Avellino, nacque a Benevento nel 1880, ma visse quasi sempre a Napoli, la «bella Partenope», come amava ripetere da appassionato di lettere classiche. Si iscrisse a medicina «unicamente per poter lenire il dolore dei sofferenti». Da medico seguì la duplice carriera sopra delineata.
In particolare salvò alcuni malati durante l’eruzione del Vesuvio del 1906; prestò servizio negli ospedali riuniti in occasione dell’epidemia di colera del 1911; fu direttore del reparto militare durante la grande guerra. Negli ultimi dieci anni di vita prevalse l’impegno scientifico: fu assistente ordinario nell’istituto di chimica fisiologica; aiuto ordinario negli Ospedali riuniti; libero docente di chimica fisiologica e di chimica medica. Alla fine gli venne offerto di diventare ordinario, ma rifiutò per non dover abbandonare del tutto la prassi medica. «Il mio posto è accanto all’ammalato!». In questo servizio integrale all’uomo Moscati morì il 12 aprile del 1927. Straordinaria figura di laico cristiano, fu proclamato santo da Giovanni Paolo II nel 1987 al termine del sinodo dei vescovi «sulla Vocazione e Missione dei laici nella Chiesa».
Etimologia: Giuseppe = aggiunto (in famiglia), dall’ebraico
Martirologio Romano:
ra dei corpi accudiva al tempo stesso con grande amore anche le anime.
Giuseppe Moscati fu uno dei medici più conosciuti della Napoli d’inizio Novecento. Per la sua capacità di coniugare scienza e fede, è riconosciuto come Santo dalla Chiesa cattolica a partire dal 1987. Ancora oggi riceve visite da persone di ogni parte del mondo, non solo per le infermità fisiche, ma anche per i mali che colpiscono l’animo degli uomini del nostro tempo.
Contrariamente a quanto si possa credere, non nacque a Napoli, ma a Benevento, il 25 luglio 1890, da Francesco Moscati, magistrato, e Rosa de Luca; fu il settimo dei loro nove figli. Si trasferì nel capoluogo campano quando aveva quattro anni, dopo una breva permanenza ad Ancona, per via del lavoro del padre.
L’8 dicembre 1888 ricevette la Prima Comunione da monsignor Enrico Marano nella chiesa delle Ancelle del Sacro Cuore, fondate da santa Caterina Volpicelli. Studiò presso il liceo «Vittorio Emanuele»; dopo il conseguimento del diploma di maturità classica, nel 1897, iniziò gli studi universitari presso la facoltà di Medicina. Il motivo di quella scelta, di rottura rispetto alla tradizione familiare (oltre al padre, anche suo nonno paterno e due fratelli avevano studiato Giurisprudenza), è forse dovuto al fatto che, dalla finestra della nuova abitazione, poteva osservare l’Ospedale degli Incurabili, che suo padre gl’indicava suggerendogli sentimenti di pietà per i pazienti ricoverati.
Erano tutti modi con cui si esercitava a conservarsi sobrio e povero, come gli ammalati che prediligeva visitare. Numerosi sono i racconti di pazienti che si videro recapitare indietro la somma con cui l’avevano pagato, anche se ne aveva diritto essendo venuto da lontano. I poveri, per lui, erano «le figure di Gesù Cristo, anime immortali, divine, per le quali urge il precetto evangelico di amarle come noi stessi». Viene quasi alla mente l’espressione che papa Francesco ha più volte pronunciato, definendoli “carne di Cristo”, quindi scendendo nel concreto della corporeità e del dolore. Il dottor Moscati insegnava a trattare questa manifestazione «non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un’anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l’ardenza dell’amore, la carità».
E proprio la carità era, secondo lui, la vera forza capace di cambiare il mondo, come scrisse nel 1922 al dottor Antonio Guerricchio, un tempo suo assistente: «Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo, in alcuni periodi; e solo pochissimi uomini son passati alla storia per la scienza; ma tutti potranno rimanere imperituri, simbolo dell’eternità della vita, in cui la morte non è che una tappa, una metamorfosi per un più alto ascenso, se si dedicheranno al bene».
Nel dottor Moscati la scienza era compenetrata da un’acuta capacità diagnostica, tanto più sorprendente se si pensa che, alla sua epoca, erano sicuramente noti i raggi X, ma non le tecniche con le quali oggi s’indaga l’interno degli organi, come la TAC o altre. I sintomi che altri riconducevano a malattie di un certo tipo erano da lui riferiti a cause di natura diversa, per le quali disponeva terapie il più delle volte benefiche. Oltre ai suoi prediletti, ebbe due pazienti celebri: il tenore Enrico Caruso, a cui rivelò – dopo essere stato tardivamente consultato – la vera natura del male che lo condusse alla morte, e il fondatore del santuario della Madonna del Rosario di Pompei, il Beato Bartolo Longo.
Tutte queste doti traevano la propria sorgente dall’Eucaristia, che riceveva quotidianamente, in particolare nella chiesa del Gesù Nuovo, non molto lontana dalla sua abitazione, in via Cisterna dell’Olio 10, dove viveva con la sorella Anna, detta Nina. Grande era anche la sua devozione alla Vergine Maria, sul cui esempio decise, nel pieno della maturità, di rimanere celibe, ma senza farsi religioso come san Riccardo Pampuri né diventare sacerdote, scelta che invece compì, a quarantacinque anni, il Servo di Dio Eustachio Montemurro. Qualcuno ha sospettato che fosse, per usare un eufemismo, incapace alla riproduzione o che avesse qualche tratto di misoginia. In realtà non si riteneva incline al matrimonio, che invece esortava ad abbracciare ai suoi giovani allievi: inoltre, se avesse preso moglie, non sarebbe più stato libero di visitare i suoi poveri.
La morte lo colse per infarto al culmine di una giornata come tante, verso le 15 del 12 aprile 1927. La poltrona dove si sedette, poco dopo aver applicato a se stesso la capacità diagnostica che aveva salvato tanti, è conservata ancora oggi, come tanti altri suoi oggetti, nella chiesa del Gesù Nuovo, grazie all’intervento della sorella Nina.
I padri Gesuiti, a cui è tuttora affidato il Gesù Nuovo, non raccolsero solo la sua eredità materiale, ma si fecero custodi del suo ricordo e seguirono l’aumento della sua fama di santità. La sua causa di beatificazione si è quindi svolta nella diocesi di Napoli a partire dal 1931. Dichiarato Venerabile il 10 maggio 1973, è stato beatificato a Roma dal Beato Paolo VI il 16 novembre 1975.
A seguito del riconoscimento di un ulteriore miracolo per sua intercessione, dopo i due necessari per farlo Beato secondo la legislazione dell’epoca, è stato canonizzato da san Giovanni Paolo II il 25 ottobre 1987. In quel periodo si stava svolgendo la VII Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi su «Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’anni dal Concilio Vaticano II»: non poteva esserci occasione migliore per indicarlo alla venerazione dei cattolici di tutto il mondo.
La memoria liturgica di san Giuseppe Moscati nel Martyrologium Romanum è il 12 aprile ma localmente, dato che il giorno della nascita al Cielo può cadere nei giorni tra la fine della Quaresima e l’Ottava di Pasqua, è stata fissata al 16 novembre. Quello è anche il giorno anniversario della beatificazione e della traslazione dei suoi resti: in quella data del 1930 vennero infatti trasferiti dalla cappella dei Pellegrini nel cimitero di Poggioreale alla chiesa del Gesù Nuovo e collocati nel lato destro della cappella di san Francesco Saverio. Sempre il 16 novembre, ma del 1977, quindi due anni dopo la beatificazione, vennero posti sotto l’altare della cappella della Visitazione, a seguito della ricognizione canonica.
Autore: Emilia Flocchini
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