Le più antiche notizie rinviano al tempo in cui a Roma sul trono imperiale sedeva Domiziano (81-96), della dinastia dei Flavi. Apparteneva alla famiglia dei Flavi anche Domitilla, giovanissima cugina dell’imperatore, “pecora nera” nella famiglia imperiale, perché cristiana.
Promessa sposa, già da bambina, ad Aureliano, di nobile famiglia senatoria, venne dissuasa dalle nozze da Marone, insieme ai suoi amici Eutiche e Vittorino, cristiani anch’essi. Aureliano spinse così l’imperatore a condannarla all’esilio sull’isola di Ponza. Accompagnarono Domitilla, per curarne la formazione, anche i tre amici cristiani Marone, Eutiche e Vittorino, che agli occhi di Aureliano apparvero come i responsabili del rifiuto da parte di Domitilla. Marone fu condannato ai lavori forzati e inviato sulla Salaria, a 130 miglia da Roma, dove morì nell’anno 100. (Avvenire)
Patronato: Civitanova Marche
Emblema: Palma
Martirologio Romano: Sul Monte d’Oro nelle Marche, san Marone, martire.
Le più antiche notizie su San Marone le troviamo negli Acta SS. Nerei et Achillei e rinviano al tempo in cui a Roma sul trono imperiale sedeva Domiziano (81-96), della dinastia dei Flavi. Apparteneva alla famiglia dei Flavi anche Domitilla, giovanissima cugina dell’imperatore, “pecora nera” nella famiglia imperiale, perché cristiana. A Roma c’era già una comunità cristiana organizzatasi in seguito alla predicazione di San Pietro, martire nella persecuzione scatenata nel 64 da Nerone (54-68). Domitilla era orfana di padre e di madre. La allevava lo zio Flavio Clemente, zio anche dell’imperatore. Clemente l’aveva promessa sposa, già da bambina, ad Aureliano, di nobile famiglia senatoria, che con quel matrimonio avrebbe stretto vincoli di parentela con la famiglia imperiale, avrebbe messo le mani sul cospicuo patrimonio della fanciulla orfana e, chissà, avrebbe potuto aspirare a divenire imperatore dopo Domiziano, che già gli aveva conferito la carica di console.
Il quadro storico fin qui delineato può essere considerato attendibile, ma nel corso del Medioevo la figura del santo si colorò di elementi chiaramente leggendari, anche se “leggendario” non significa necessariamente “falso”, perche ogni leggenda si forma per trasformazione o rielaborazione di un nucleo originario corrispondente a verità. Comunque, il culto del martire San Marone mise salde radici nelle città romane lungo il corso del Chienti e del Potenza: a Septempeda, oggi San Severino, fu venerato e ricordato anche per aver guarito dall’idropisia il “procurator” della città. A Tolentino il suo culto è testimoniato dal fatto che è protettore della città insieme a San Catervo. Identica situazione si ritrova ad Urbisaglia, ove San Marone è ancor oggi comprotettore della cittadina insieme a San Giorgio; questo, forse, ha fatto attribuire a San Marone il miracolo della principessa liberata dal drago, altrove attribuito sempre a San Giorgio: alla foce del Chienti, un drago sarebbe emerso dal mare per mangiarsi una principessa, in questo caso la figlia del re di Urbisaglia, probabile evocazione popolare dei locali re carolingi o sassoni. San Marone la salvò.
Nell’anno 100 dopo Cristo San Marone morì martire in VaI di Chienti, nei pressi del santuario del dio Granno.
Marone si fece araldo del vangelo sul territorio piceno attraversato da quel tratto della Salaria che, diramandosi dalla valle del Tronto, si addentrava nel Piceno costeggiando i Sibillini. Subì il martirio sul territorio dell’attuale Urbisaglia, ove sorgeva il santuario dedicato all’antico dio italico Granno, identificato poi col dio greco Apollo.
All’interno del themenos o recinto sacro del tempio, sgorgavano sorgenti di acque calde, e i pagani credevano che il dio conferisse loro virtù curative; era quindi molto frequentato. Al santuario del dio Apollo-Granno inviò più volte donativi, per ottenere la guarigione, anche l’imperatore romano Caracalla (212-217), che una volta vi si recò anche in pellegrinaggio. Lo riferisce lo scrittore greco Dione Cassio. Le rovine del Palazzo di Carlo Magno in VaI di Chienti erano ancora visibili nel 1500. In quel secolo Andrea Dacci di Sant’Elpidio additava nella piana del Chienti i resti di un “Palazzo antico” che la tradizione riteneva “il Palazzo di Re Carlo”.
Nell’anno 100 dopo Cristo, a Roma Aureliano si convinse che per Marone non era sufficiente la condanna ai lavori forzati. Doveva morire. Il favore con cui le masse del Piceno accoglievano la predicazione del Cristianesimo comprometteva gli interessi di chi viveva dei proventi del culto del dio Grannus, e anche quelli personali del console Aureliano, che nel Piceno aveva possedimenti e quindi interessi da tutelare. A Roma dovettero anche giungere formali proteste e Aureliano inviò Turgio, un ex console suo amico, per far processare Marone. Avevano già tentato di linciarlo facendolo morire schiacciato da un grosso macigno ma, stando alla tradizione, non ci erano riusciti per la protezione di Dio. Turgio, in qualità di magistrato romano, fece applicare la legge, che per la condanna a morte di un cittadino romano prevedeva la decapitazione, e Marone fu decapitato. Gli antichi martirologi concludono il racconto del martirio con queste parole: il popolo cristiano prese il suo corpo e gli diede onorevole sepoltura. Era il 15 aprile dell’anno 100.
I cristiani del Piceno poterono certamente dar sepoltura al corpo del martire, perche la legge romana, per il seppellimento dei morti prevedeva disposizioni da rispettare come sacre, emanate già nel periodo repubblicano di Roma, quando erano state redatte le leggi delle Dodici Tavole: Deorum Manium jura sancta sunto, i diritti degli dei Mani (dei defunti) siano rispettati come sacri.
Autore: Don Marco Tesi
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