Categorie: Testimonium

I Santi di oggi – 17 Aprile – Santa Caterina Tekakwitha, vergine

Osserneon (Auriesville), New York, 1656 – Caughnawaga, Canada, 17 aprile 1680 Kateri Caterina Takakwitha è la prima santa pellerossa d’America. La sua breve vita (1656-1680) fu segnata dalla diversità. Era, infatti, figlia di una coppia mista: padre irochese pagano e madre algonchina cristiana. Poi venne sfigurata dal vaiolo. Battezzata ad Albany da missionari francesi, scappò in Canada per sfuggire alle ire dei parenti pagani. Qui visse nella preghiera e morì all’età di soli 24 anni. Beatificata da Giovanni Paolo II il 22 giugno 1980 ed infine canonizzata da Benedetto XVI il 21 ottobre 2012.

Martirologio Romano: A Sault nel Québec in Canada, beata Caterina Tekakwitha, vergine, che, nata tra gli Indiani nativi del luogo, fu battezzata nel giorno di Pasqua e, benché perseguitata da molte minacce e da vessazioni, offrì a Dio quella purezza che quando non era ancora divenuta cristiana si era già impegnata a conservare.

A quattro anni la beata rimase orfana. Il vaiolo scoppiato nel 1660 le aveva distrutto la famiglia e le aveva deturpato il volto attorno agli occhi. Venne accolta nella capanna di un suo zio paterno, nel villaggio di Gandaouagué, costruito dopo l’epidemia, dove crebbe ritirata e serena, dedita alle faccende domestiche, con un’anima naturalmente cristiana. Quando doveva uscire dalla capanna per andare a fare legna nella foresta o ad attingere acqua alla sorgente vicina, si avvolgeva in un ampio scialle dal colore cremisi per difendere gli occhi malati dalla viva luce del sole. Nelle ore di riposo, paga della compagnia delle zie e di una sorella adottiva, confezionava piccoli utensili domestici con le fibre delle radici o le cortecce degli alberi. Essendo assai ricercati, rappresentavano una fonte non indifferente di guadagno per la famiglia che l’ospitava. Più tardi imparerà a tramutare la pelle dell’alce e del bufalo in graziose borsette, e ad arabescare di cento disegni le grandi sciarpe dei guerrieri e dei cacciatori. Tekakwitha crebbe senza scuola e senza studio, amante soltanto della solitudine e del lavoro, ma la grazia di Dio la condusse per vie misteriose alla pratica eroica di tutte le virtù, specialmente di quella più sconosciuta agli Indiani, la castità.

Nel 1667 gli Irochesi si erano finalmente decisi a stringere un patto di amicizia con il Canada, dal 1632 divenuto una provincia della Francia, dopo la guerra condotta contro di loro nel 1666 e terminata con la distruzione di tutti i villaggi della vallata del Mohawk. Intermediari di pace furono tre missionari gesuiti decisi a evangelizzare quei selvaggi anche a costo della vita come in precedenza avevano fatto i loro confratelli: 8. Renato Gouspil (+1642), S. Isacco Jogues (+1646) e S. Giovanni de-la-Lande (+1646). I tre “vestenera”, P. Giacomo Frémin, P. Giovanni Bruyas e P. Giovanni Pierron furono accolti nella grande capanna dello zio di Tekakwitha, capo del nuovo villaggio chiamato Caughnawaga. Nel breve tempo della loro sosta essi parlarono alla santa fanciulla di Dio e del suo infinito amore per gli uomini. L’anima di lei ne rimase conquisa per sempre tanto che crebbe con una invincibile ripugnanza, sconosciuta alla sua gente, per la vita matrimoniale.
Per accrescere il benessere della famiglia le vecchie zie della beata non vedevano l’ora di darla in sposa a qualche gagliardo cacciatore. Alla proposta, la fanciulla impallidì, e non l’accettò sia perché era ancora troppo giovane e sia perché non intendeva contrarre matrimonio. Le zie, anziché darsi per vinte, sperarono di giungere al fidanzamento con la sorpresa e l’inganno. Scelsero il fidanzato, stabilirono il giorno dell’incontro ufficiale d’accordo con i parenti, e incominciarono a circuire l’orfana con insolite cortesie. Una sera la invitarono a sedere vicino al fuoco, al posto della zia più anziana. Frattanto la capanna cominciava ad affollarsi di invitati recanti sorrisi e regali. Ad un certo momento entrò anche il giovane prescelto, guardò la fanciulla a lui predestinata, si accostò incerto al focolare, fece cenno di sedersi accanto a Tekakwitha, ma costei, intuito il piano strategico delle zie, confusa e rossa in viso, si alzò di scatto e fuggì fuori della capanna sospirando: “Mio Dio, salvami da chi mi vorrebbe sua sposa. Prendilo Tu il candido giglio della mia verginità. E’ tuo, e tuo sarà per sempre”. La beata non rivarcò la soglia della capanna se non quando fu deserta, ma dovette subire un trattamento molto duro da parte di coloro che non comprendevano le sue aspirazioni.
La perseguitata trovò conforto nel frequentare la cappella che nel villaggio aveva eretta il P. Giovani Pierron in onore di San Pietro. Essendo costui pittore delineava in tanti quadri i principali misteri della fede, e li spiegava ai selvaggi come poteva non essendo ancora padrone della lingua. Diversi bambini e alcuni adulti ricevettero il battesimo. Anche la beata lo desiderava ardentemente, ma lo zio non ne volle sapere. Diverse famiglie cattoliche per vivere in pace la loro fede si erano trasferite in Canada, a Salto San Luigi, sulla riva del San Lorenzo, nella missione di San Francesco Saverio, eretta dai Gesuiti per l’evangelizzazione degli Uroni e degli Algonchini.
Nel 1670 nella direzione della missione al P. Pierron successe il P. Francesco Boniface il quale, conoscendo bene la lingua degli autoctoni, moltiplicò le conversioni. Alla sua morte (+1674) giunse a sostituirlo, dalla Francia, il P. Giacomo de . Egli per trentasette anni sarà l’apostolo degli Irochesi. Nella primavera del 1675, approfittando dell’assenza degli uomini e delle donne dalle capanne, dalla mattina alla sera, a motivo delle semine, si recò qua e là per confortare i malati e visitare i bambini. Non era mai entrato nella capanna dello zio di Tekakwitha perché lo sapeva contrario al missionario, ma quel giorno una voce misteriosa lo spinse a varcarne la soglia. La beata, ormai diciannovenne, ne fu felice. Narrò al ministro di Dio la sua triste storia, gli parlò della sua irriducibile contrarietà al matrimonio e gli espresse la brama che sentiva del battesimo. Il P. Giacomo ne rimase commosso fino alle lacrime. Non si sarebbe mai sognato difatti di trovare nella capanna di un suo fiero avversario un’anima così misteriosamente segnata dalla grazia. Il battesimo alla casta giovane fu differito quasi di un anno per le dolorose defezioni di cui i missionari erano consci. Il “Giglio dei Mohawks” divenne figlia di Dio il 16-4-1676, solennità di Pasqua, attorniata dai pellerossa adorni delle loro penne variopinte che si alzavano alte a raggiera attorno alle loro fronti. Lo zio non vi si era opposto a condizione che la nipote non abbandonasse il villaggio. Le era stato imposto il nome di Caterina. Da quel giorno la beata trascorse la sua vita tra il lavoro e la preghiera, la capanna e la chiesa. Non sapendo né leggere, né scrivere, con grande semplicità e fiducia ricorreva al missionario in ogni dubbio e difficoltà, e il ministro di Dio la rassicurava, l’incoraggiava e le indicava la maniera migliore per progredire nella virtù. Nei giorni di festa, Caterina rimaneva più a lungo nella chiesetta del villaggio invece di andare con gli zii a lavorare nei campi o nella foresta, ma costoro, avidi come erano di guadagno, cominciarono a maltrattarla, a considerarla una fannullona. a negarle persino, in quei giorni, il cibo necessario. Caterina resistette incrollabile ai nemici della sua fede come in precedenza aveva resistito ai nemici della sua verginità. Contro di lei le zie assoldarono i monelli del villaggio perché la insultassero e la prendessero a sassate al grido di “cristiana” quando, mattina e sera, usciva dalla povera chiesetta intessuta di cortecce d’alberi. La giovane, pur di rimanere fedele a Cristo, avrebbe versato con gioia il proprio sangue. Anche lo zio infierì contro di lei. Un giorno incaricò persino un giovane di penetrare nella capanna quando la nipote era sola, e di minacciarla di morte facendole roteare una scure sopra il capo. Sperava, in quel modo, di costringerla a ritornare pagana, ma la beata disse senza scomporsi all’aggressore: “Eccomi pronta. Puoi togliermi la vita, ma non la fede”.



Gli zii erano decisi a riuscire nei loro perversi intenti anche a costo di fare ricorso all’arma della calunnia. Nell’inverno del 1677, il capo di Caughnawaga partì con la famiglia per la grande caccia nella foresta di Saratoga. La zia più vecchia, che vedeva, nel comportamento molto riservato della nipote, un rimprovero alla sua vita pagana, le pose gli occhi addosso per coglierla in qualche fallo e umiliarla. Un giorno Caterina, parlando del vecchio zio con alcuni cacciatori, dimenticò di aggiungervi il titolo “mio padre” secondo le usanze degli indiani. Bastò questo alla perfida vecchia per pensare a una tresca tra la nipote e lo zio. Al termine della caccia ella corse dal missionario e accusò la nipote di tale misfatto, ma il “vestenera”, al corrente della preconcetta ostilità della delatrice, la congedò senza darle credito. Interrogò in seguito l’accusata, ma la fanciulla, inorridita solo al pensiero di un simile peccato, dichiarò che mai aveva macchiato la purezza del suo giglio.

Da quel giorno Caterina comprese che il villaggio non offriva più sicurezza ne per la sua virtù, né per la sua fede. Con il concorso del missionario da quel momento pensò alla fuga nella missione di Salto San Luigi, dove avrebbe potuto vivere, in pace, nella capanna della sua sorella adottiva che colà si era trasferita e ora desiderava averla con sé. Suo angelo tutelare nella fuga fu un fiero irochese, della tribù degli Oneidas. Dopo la conversione costui era diventato, in qualità di catechista, un prezioso collaboratore dei missionari. Ogni tanto organizzava spedizioni apostoliche nelle vallate irochesi in compagnia di altri due cristiani tra cui il marito della sorella adottiva di Caterina. Nel 1677 era capitato proprio a Caughnawaga. Venuto a conoscenza delle persecuzioni odiose alle quali era sottoposta la giovane, al termine del suo giro missionario la prese con sé nella canoa. All’alba di quel giorno lo zio si trovava nel vicino Fort-Orange per affari con gli inglesi. Appena costui ne ebbe sentore, imbracciò furente il fucile, saltò nel suo canotto e inseguì i fuggitivi. Li raggiunse nel cuore della foresta, ma non riuscì a mettere le mani sulla nipote perché, al suo apparire, il cognato che la seguiva con una fucilata l’aveva avvertita dell’imminente pericolo, ed ella era riuscita a nascondersi in un groviglio di liane. A Salto San Luigi, ai confini tra il Canada e Stati Uniti, Caterina fu avviata alla santità dal P. Pietro Cholenec, superiore della missione, e dal P. Claudio Chauchetière, suo collaboratore. Quella località veniva chiamata pure “Villaggio della preghiera” per la serietà con cui le varie tribù degli irochesi, degli uroni e degli algonchini si davano all’orazione e ad ogni opera buona. Caterina non poteva desiderare un ambiente migliore. Nella lettera di presentazione al P. Cholenec, il P. Giacomo diceva: “Caterina Tekakwitha viene a Salto San Luigi. Vi prego di volervi interessare della sua direzione. Conoscerete presto il dono che vi facciamo; è un tesoro”.
La giovane fu ospitata subito nella capanna della sorella adottiva, dove trovò pure Anastasia, la dolce amica della sua mamma e la più autorevole cristiana del villaggio, fuggita anche lei per gli stessi motivi dalla valle del Mohawks. La gioia di Caterina raggiunse il colmo. Ne parlava quasi estasiata ai missionari, motivo per cui prese subito con ardore a praticare quanto di edificante vedeva compiere dagli altri. In breve tempo si distinse talmente tra le giovani della missione che tutti, francesi e indiani, l’ammirarono. Il vaiolo le aveva deturpato il viso, la poca salute l’aveva resa esile e quasi diafana, eppure da lei si sprigionava un fascino che incantava. I suoi sorrisi erano sempre molto luminosi.

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A Salto San Luigi Caterina condusse una vita apparentemente semplice, senza estasi e senza visioni. Invece la sua unione con Dio fu totale e continua. Ogni mattina e ogni sera si recava nella povera chiesetta della missione per attingere dalla grazia divina la luce e la forza necessario per più ardue ascensioni. Durante il giorno continuava la sua preghiera nel silenzio della capanna, mentre lavorava nei campi o ascoltava il fruscio degli alberi nella foresta, mentre si beava al profumo dei fiori o alla contemplazione della grande croce solitaria che dominava la riva del fiume. Una cosa ancora le mancava, l’incontro con lo sposo dell’anima sua nella Comunione. Caterina vi si preparò vivendo e lavorando in compagnia di Anastasia, visitando e aiutando i malati, consolando gli afflitti. Attestò il P. Cholenec che ” non poteva soffrire che si parlasse bene di lei, Allora fuggiva o con un lembo del suo scialle si copriva, per rossore, il volto pudico”.

Nel villaggio la beata esercitava un meraviglioso ascendente su tutti gli indiani, ma in modo speciale sui bambini. Preoccupata del loro avvenire cristiano, faceva festa quando li incontrava per le viuzze del villaggio. Per tutti aveva un sorriso, una carezza, una buona parola. I missionari, consci dell’incostanza degli indiani, non li ammettevano alla prima comunione se non dopo molti anni di prove. Per dare ai battezzati un’idea altissima dell’Eucaristia la stessa condotta tennero con Tekakwitha. Per il suo primo incontro con Dio scelsero la solennità del Natale 1677. Quando quel sospirato momento venne, ne pianse di gioia. Affermò il P. Cholenec; “Da quel giorno ella pareva più creatura del cielo che della terra, tanto restò piena di Dio e del suo amore”. Ebbe in seguito la felicità di comunicarsi sovente, ma lo fece sempre con tanta devozione che le donne più devote cercavano di mettersi accanto a lei per infervorarsi nello spirito. Nell’inverno del 1678 anche Caterina, per dovere di giustizia, si inoltrò nella foresta per la grande caccia. Colà, prima del lavoro, si ritirava lungo le rive del ruscello vicino, dove le querce intrecciavano i loro rami a forma di arcata, e sostava a lungo in preghiera davanti alla rozza croce che aveva intagliato sul tronco di un vecchio abete. Chiudeva le sue devozioni con una dura disciplina. Durante la giornata prendeva parte ai lavori del gruppo, e quando la conversazione delle compagne si faceva più rumorosa, ella le incitava a cantare qualche inno imparato nella chiesetta della missione. C’era però chi la spiava con occhi torbidi e lei lo ignorava.

All’inizio della primavera del 1678 i cacciatori avevano già fatto ritorno con le loro famiglie al villaggio per le semine e per la celebrazione della Pasqua. Era la prima volta che Caterina vi prendeva parte e faceva la sua seconda comunione tra un profluvio di lacrime. Alla meditazione fatte dai missionari sulla Passione del Signore ella sentì crescere in sé il misterioso desiderio della sofferenza. Cercò di soddisfarlo in mille maniere. Per la vita sempre più edificante che conduceva, i missionari le permisero di iscriversi all’Associazione della Santa Famiglia che il primo vescovo di Québec, il B. Francesco Montmorency-Laval (+1708), aveva approvata.

Il desiderio della beata di soffrire sempre di più per amore del Signore fu presto appagato. Durante la grande caccia, una donna, gelosa del marito, aveva guardato con sospetto le uscite di Caterina dalla capanna all’alba, e le prolungate veglie di lei al termine del giorno. Una notte suo marito, avendo dovuto durante il giorno inseguire a lungo un cervo, ritornò stanco alla capanna. Invece di andare a coricarsi accanto alla moglie, si era sdraiato e addormentato sul primo giaciglio che nel buio aveva trovato: quello poco lontano da Caterina. Un’altra volta, parlando di una canoa che aveva preparato nella foresta per il ritorno nel villaggio, l’uomo aveva detto che Tekakwitha l’avrebbe aiutato a trasportarla fuori di là perché era molto abile e caritatevole. Alla donna gelosa non occorse altro per pensare a una tresca del marito con Caterina. Si presentò quindi al missionario e li accusò di azioni disoneste. Il missionario, costernato, chiamò a sé la fanciulla, le manifestò l’atroce accusa, ma il “Giglio dei Mohawks”, pur con lo schianto in cuore, fissò serena il missionario, e poi con voce sicura gli disse: “Non ho nulla da rimproverarmi”. Essendo sola al mondo, non stupisce che Caterina sentisse come tutti il bisogno dell’amicizia. Ne contrasse una con una irochese trentenne, Tegaiaguenta. Il P. Bruyas l’aveva battezzata con il nome di Maria Teresa, ma ella cominciò a vivere secondo gli insegnamenti della fede soltanto dopo la morte per fame del marito durante una grande caccia. Ai piedi della croce, davanti alla quale Caterina amava prolungare le sue preghiere, si narrarono le loro tristi vicende, e proposero di vivere spiritualmente unite nella preghiera comune e nella penitenza.

Sull’avvenire di Caterina, la sorella adottiva credeva di potersi arrogare qualche diritto di decisione. Essendo contrario alle usanze delle giovani irochesi il rimanere sempre zitelle, cominciò anche lei a farle proposte di matrimonio. Se fosse rimasta sola al mondo chi si sarebbe preso cura di lei? Il P. Cholenec, al quale la beata si era rivolta, le raccomandò di pregare e di riflettere bene prima di prendere una decisione, essendo lei sola responsabile del suo avvenire. Caterina accolse l’invito ma, siccome continuava a provare una invincibile avversione per il matrimonio, sia alla sorella adottiva e sia al missionario dichiarò che, a costo della miseria e della fame, sarebbe stata per sempre soltanto la sposa di Gesù! Alla scuola dei missionari Caterina crebbe pure nella devozione alla Madonna. In Lei era certa di trovare una potente difesa alla sua purezza, virtù ignorata dai selvaggi. Quando ne parlava si stringeva fortemente al petto il rosario che portava sempre appeso al collo come un prezioso monile. Da buona figlia di Maria lo recitava ogni giorno, con le Litanie Lauretane talora persino con i piedi affondati nella neve. Ogni sabato onorava Maria SS. con speciali preghiere e mortificazioni. Meritò così il 25 marzo 1679 di consacrare pubblicamente e perpetuamente a Dio il candore della sua verginità.

Fino alla morte Caterina conservò intatta la sua innocenza battesimale, pregando e facendo penitenza. Aveva capito alla perfezione le parole di Gesù: “Chi vuole venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Sentì ella il fascino della sofferenza pensando ai dolori del Figlio di Dio e ai gravi disordini ai quali si abbandonavano ovunque gli indiani. Nella ricerca delle mortificazioni era assecondata dall’amica Maria Teresa, un tempo apostata. Personalmente Caterina doveva riparare soltanto piccole vanità della prima giovinezza: capelli ben ravviati, abiti più appariscenti, ninnoli e fronzoli al collo e ai polsi.

Caterina aveva iniziato segretamente la vita di mortificazione fin dalla fanciullezza, ma nella missione canadese la volle inasprire. Digiunava ogni mercoledì e sabato. Sovente il nutrimento, già scarso, lo rendeva insipido con la cenere. Attorno ai fianchi portava una specie di fascia intessuta di punte di ferro, e talora si buttava sui fasci di spine da lei raccolte lungo le siepi. Ogni sabato, con la sua amica, prima di andarsi a confessare dal P. Cholenec, si ritirava in una capanna, fuori del villaggio, per pregare e farsi dare una dura disciplina sulle spalle con un fascio di verghe. Tra le lacrime la beata sospirava: “O Gesù, misericordia, pietà!”. Due giorni dopo la morte apparirà alla vecchia Anastasia con una croce tra le mani e le dirà: “Mamma, guarda questa croce quanto è bella! Essa fu la mia felicità per tutta la vita. Oh, quanto desidero che tutti l’amino come io l’amai!”.
Già fino dal marzo del 1679 Caterina aveva incominciato a deperire, forse in seguito a tante penitenze che non sempre i missionari riuscivano a moderare. In uno sforzo supremo continuò a frequentare la chiesetta, a lavorare nella capanna, e a praticare la mortificazione. Nell’inverno del 1680 rimase immobile nel suo lettuccio e assorta in profonda meditazione. Fu assistita dal P. Chauchetière il quale, a sollievo dell’inferma che amava tanto l’innocenza dei bambini, ogni tanto si faceva accompagnare dai fanciulli ai quali faceva il catechismo. Due mesi prima di morire disse al missionario che sarebbe andata in paradiso nella settimana santa. Quando le fu portato il viatico fu lieta di poterlo ricevere con la candidissima veste di seta che la sua amica le aveva imprestato. Morì, assistita dal P. Cholenec, invocando i nomi di Gesù e di Maria il mercoledì santo 17 aprile 1680, come aveva predetto ad alcune donne dell’Associazione della Santa Famiglia.

La salma verginale di Caterina non fu posta in una povera corteccia di albero, avvolta in una coperta, secondo il costume indiano, ma in una cassa di legno, dono di due francesi. Oltre che ad Anastasia, l’angelica fanciulla apparve pure al P. Chauchetière e all’intima sua amica. Sulla sua tomba cominciarono ad accorrere indiani e francesi da ogni parte, persino da Montreal e da Québec. Per intercessione di lei i miracoli si moltiplicarono.
Le reliquie della vergine pellerossa, poste in una cassetta di ebano, dal 1719 sono custodite dai Padri Gesuiti a Caughnawaga, nella diocesi di Albany. Pio XII ne riconobbe l’eroicità delle virtù il 3 gennaio 1943 e Giovanni Paolo II la beatificò il 22 giugno 1980.



Autore: Guido Pettinati

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