Come tante altre devozioni, è difficile poter stabilire con precisione le origini della devozione allo Scapolare del Carmelo. Più agevole è segnalarne le fasi di crescita. Ricordiamo, comunque, subito che “scapolare” viene da “scapola” e indica quell’indumento che presso molti istituti di monaci o frati nel Medio Evo ricopriva sia il petto e sia le spalle o scapole, dopo averlo infilato per la testa. Serviva generalmente per i tempi di lavoro, così da proteggere l’abito e non insudiciarlo.
Dello Scapolare carmelitano come parte della divisa dell’Ordine non c’è nessuna traccia nella Regola o Norma di vita dell’Ordine stesso, scritta negli anni 1206-1214. E neppure la Ignea Sagitta lo ricorda, benché sia un testo ricco e importante di poco tempo dopo.
I primi documenti che ne parlano nel secolo XIII sono le Costituzioni carmelitane, nella loro duplice redazione: Londra 1281, Bordeaux 1294. Vi troviamo prescritto che ogni religioso abbia due tonache e due “cappucci” ossia – come sarà specificato più tardi – due “scapolari-cappucciati”; inoltre, che tutti i frati dormano con la tonaca e lo scapolare, sotto grave pena, fatta eccezione per gli ammalati. Parimenti, gli “Atti” del Capitolo generale di Montpellier, nel 1287, ordinano che la cappa bianca, da poco introdotta, sia confezionata in modo da lasciare visibile lo Scapolare, “abito dell’Ordine”.
Durante il secolo XIV, nessun accenno in grossi autori carmelitani come Baconthorpe, Chemineto, Oler. Primo a occuparsene di proposito è il Riboti, quando descrive a lungo la foggia di vestire del carmelitano e ne evidenzia il simbolismo. Lo Scapolare, dice, va portato sempre, di giorno e di notte, con la massima diligenza, perché significa il “giogo” di Cristo, che poi è la santa obbedienza che sola viene promessa come voto, all’atto della professione religiosa, perché riflesso dell’atto fondamentale col quale Cristo ha operato l’umana Redenzione.
Prima osservazione da fare: in una così tipica prospettiva, si spiega e si giustifica il rigore delle dure sanzioni canoniche a prima vista esagerate, che si davano. Disfarsi dello scapolare, infatti, voleva dire giuridicamente disfarsi del “giogo” di Cristo, sconfessare la disciplina monastica abbracciata, abdicare al servizio di Dio nel quadro della vita consacrata.
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Seconda osservazione: agli inizi, lo Scapolare fu onorato per un motivo disciplinare che diremmo cristologico, (in onore di Cristo), anziché mariano (in onore di Maria). Per oltre un secolo e mezzo dalle origini, non risulta che lo Scapolare sia stato arricchito di un valore mariano; tale impronta gli venne più tardi, lentamente, fino a raggiungere un grado tale da legittimare la sua identificazione con la pietà stessa dei Carmelitani verso Maria. Ma alle origini non fu così. Però poi, quando l’aspetto di abito di Maria ebbe il sopravvento, fu tutto un crescendo magnifico. E, nonostante il calo generale nel culto mariano di questi ultimi decenni, la devozione allo Scapolare è ancora oggi molto sentita. Anzi, si potrebbero perfino riconoscere segni non dubbi di una sua più vigorosa fioritura.
Il magistero della Chiesa, lungi dal segnare deprezzamento, è il primo che autorevolmente raccomanda questa devozione mariana.
Limitiamoci ad un’attestazione di prima qualità: quella di Paolo VI. Nella Marialis cultus proclama devozione “cattolica” quella dello Scapolare del Carmine, insieme al santo Rosario. E, delegando il card. Silva Henriquez a rappresentarlo nel Congresso internazionale mariologico-mariano a San Domingo, non esita a dichiarare, autorevolmente, che lo Scapolare del Carmine è una di quelle pratiche di devozione mariana “maggiormente raccomandate dal magistero della Chiesa lungo i secoli” e caldeggiate dal Vaticano II.
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