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Ignazio muore dopo 31 anni di coma, i genitori non hanno mai pensato di staccare la spina. Una storia di grande amore

Ignazio muore dopo 31 anni di coma, i genitori non hanno mai pensato di staccare la spina. Una storia di grande amore

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Ignazio Okamoto detto «Cito» aveva 22 anni quando rimase coinvolto in un incidente stradale. Da allora i genitori lo hanno accudito in casa, lasciando anche il lavoro

Nel pomeriggio di una domenica di fine agosto sono in pochi a Collebeato, piccolo paese ai piedi delle colline bresciane. Chiediamo a una signora dove abiti la famiglia Okamoto. Ci indica il cancello, «ma mi raccomando, hanno appena perso il loro ragazzo». Sì, perché per tutti, qui, Ignazio — detto Cito — è rimasto tale. Ma sono passati 31 anni dalla notte in cui, tra il 19 e il 20 marzo 1988, restò ferito gravemente in un incidente sulla A22 all’altezza di Nogarole Rocca: si salvò Ignazio (come altri due che viaggiavano sulla stessa auto, un quarto morì sul colpo) ma rimase in stato vegetativo irreversibile. Aveva 22 anni. Ed è morto venerdì nella sua casa di famiglia, a 54, «improvvisamente, anche se può sembrare paradossale, viste le sue condizioni» dice mamma Marina, bresciana, che non riesce a trattenere la commozione.


La seconda vita di questo ragazzo che gli amici adoravano

Gli amici lo adoravano perché era un leader, un trascinatore fino a 31 anni fa, racconta il Corriere. Poi è trascorsa in un letto. Al suo fianco, senza mai mollare o lamentarsi, con la pazienza vera di un giapponese (come dice la moglie) papà Hector, 77 anni, messicano di origini nipponiche — che ai suoi figli ha trasmesso la passione per lo sport, tanto da fondare, al Cus di Brescia, la prima squadra di baseball.

Due anni dopo l’incidente decise di lasciare il lavoro per dedicarsi al suo primogenito: «Era necessario, non potevamo assumere infermiere e abbiamo scelto di non lasciarlo in una struttura». Ci è rimasto solo due anni, a Lonato sul Garda. «E poi vuole mettere l’assistenza di un padre, dei genitori!», sorride Hector emozionato. «Non eravamo preparati, ma sono diventato cuoco, infermiere e anche fisioterapista per mio figlio», nonostante «i primi anni siano stati molto duri, la vita ci è cambiata completamente». Non si è mai svegliato, Cito, ma a volte è sembrato che dai suoi occhi scendessero le lacrime, mentre invecchiava inerme. «Non so dirle quanto si accorgesse di ciò che accadeva attorno al suo letto, ma segni di reazione ne ha sempre avuti. All’inizio lo pregavo di non piangere, gli dicevo “Ignazio, ho bisogno che tu sia coraggioso” e lo è stato».

Che potesse andare diversamente lo hanno sperato, a volte.

«Ma a me bastava che mio figlio mi sorridesse. Forse non l’ha mai fatto davvero, ma lo vedevo sereno, e mi bastava». Riusciva a deglutire, Cito. «Ce ne siamo accorti in ospedale e rischiando abbiamo firmato per togliergli la tracheotomia. Siamo riusciti ad alimentarlo fino alla fine». E mai i genitori hanno pensato che per lui sarebbe stato meglio andarsene. «Mai preso in considerazione scelte diverse. Interrompere le terapie? No, mai avuto dubbi». Il pensiero va al papà di Eluana Englaro. «Noi abbiamo fatto ciò che per noi era naturale, ce lo sentivamo dentro: volevamo che nostro figlio restasse in casa, siamo riusciti ad accudirlo prima con l’aiuto della Caritas, poi con i volontari, ma porto il massimo rispetto per chi ha deciso di percorrere strade diverse». Di recente, però, Hector e Marina stavano pensando a chi si sarebbe preso cura di Cito dopo di loro, a come fare.

Ma guai a fare complimenti a questo padre per la sua forza.

«Non li merito: mi ha sempre guidato l’istinto, il cuore». Nel 2003 il Comune di Brescia gli conferì il «Premio Bulloni» — destinato a chi fa del bene — proprio per l’impegno e la dedizione al servizio del figlio. Si sente quasi in imbarazzo, ricordandolo. Anche la sua vita si è cristallizzata 31 anni fa. E adesso? «Non sappiamo più cosa fare!» prova a sdrammatizzare. Preferisce ricordare il suo Cito, che «aveva studiato ragioneria» e la passione sfrenata per la tecnologia. «Voleva iscriversi all’università, Economia e commercio, ma gli dissi che avrebbe dovuto lavorare per pagarsi gli studi, io non potevo permettermelo. Iniziò a vendere fotocopiatrici porta a porta, era bravissimo, tutto suo madre». Tanto che poco prima dell’incidente, tornato dal militare, «avrebbe dovuto aprire un’attività». Ma il destino ha deciso diversamente.

Al suo funerale, accanto al feretro, c’era Alessandro

L’amico ALessandro ha sempre sperato in un miracolo. Era lui che guidava quell’auto maledetta nel 1988. Ma Hector non ha mai portato rancore: «Anche lui ha sofferto tantissimo. Quando uscivano capitava che guidasse anche mio figlio, avrebbe potuto succedere il contrario», dice. Sulla tomba, una fotografia di Ignazio a 17 anni: per tutti, vicina di casa compresa, Cito è sempre rimasto così.

Di Maria Rodella per Corriere.it

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