Insomma, un’opera benefica come le mense dei poveri e gli enti per la protezione del fanciullo. E che grazie ad altre società con sede in Lussemburgo e nelle Antille, versa solo il 3,5% al fisco. Il tutto, nell’assoluto rispetto delle leggi e delle norme vigenti. E noi che pensavamo che il McDonald’s del truciolato a prezzi tracciati fosse la perfetta realizzazione del capitalismo sociale nella sua felice versione nordica: profitto per pochi e mobili per tutti. E senza dovere spartire troppo con lo Stato gabelliere. Legale ma indecente? Forse, geniale certamente sì.
Sul trono di Ikea siede Ingvar Kamprad, discusso personaggio dalle simpatie filo naziste, che vive in Svizzera ed è il sesto uomo più ricco del mondo nel 2012 secondo la rivista Usa Forbes, con una ricchezza personale accumulata di 36,9 miliardi di dollari. La scoperta del “sistema Kamparad” non è nuova, ma viene ora rilanciata da Vita, settimanale del non profit (quello vero) e del volontariato italiano. Che spiega come funziona il complesso meccanismo che permette al magnate svedese di ottenere i vantaggi delle charity senza rinunciare ai profitti di una holding che possiede 300 store in 38 Paesi del mondo e una fondazione no profit con un patrimonio che supera i 35 miliardi di dollari. Questo permette a Ikea di versare al fisco quanto previsto dalla legge olandese per le associazioni senza fine di lucro: un misero 3,5% dell’imponibile. Vero è che l’azienda, scrive Gabriella Meroni su Vita, «finanzia con qualche milione l’anno alcune università svedesi, tanto per non perdere la faccia. Ma pare sia tutto, a livello di beneficienza. Il vero scopo della fondazione è creare una “riserva di capitali” per Ikea group, in caso di “aumentata necessità”». La cosa è intricata, ma soprattutto sorprendente come una matrioska e va rimontata pezzo per pezzo, come gli scaffali in vendita nei negozi Ikea.
Di svedese, intanto, in un negozio Ikea, restano solo i nomi dei mobili e i “colori sociali”, il giallo e il blu del Paese scandinavo. Perché Ikea è in realtà una multinazionale olandese: la holding si chiama Ingka Holding, con sede nelle Antille olandesi, di proprietà della fondazione Stichting Ingka Foundation creata nel 1982 a Leiden, in Olanda. Eccolo, il trucco: la vera fortuna di Ikea, e del suo fondatore Ingvar Kamprad, non è l’idea di vendere i mobili smontati, ma quella di aver costruito una struttura societaria assai complicata e praticamente inaccessibile, una ragnatela nata apposta per sfruttare meccanismi di “pianificazione fiscale”, per pagare meno tasse possibile senza violare la legge. Ad esempio, spostando le sede legale dei propri interessi in Olanda, appunto, dove il fisco è più leggero. Ma la matrioska societaria o, se preferite, la “scatola cinese”, contiene altre: la Inter Ikea Systems, ad esempio, società che è titolare soltanto della proprietà intellettuale del marchio e del “concept” Ikea. Questa, spiega ancora Vita, è a sua volta, «posseduta interamente da un’altra società la Inter Ikea Holding, con sede in Lussemburgo (Juncker ne saprà qualcosa?), a sua volta di proprietà di una terza società con sede nelle Antille olandesi (noto paradiso fiscale) gestita a sua volta da un misterioso trust registrato a Curaçao»
Ma veniamo all’Italia. Qui le cose sono ancora più intricate con cinque società che fanno capo a IkeaItalia Retail, con sede a Carugate e che paga le tasse in Italia. Poiché Ikea non è quotata in Borsa è sottoposta a scarsi obblighi di trasparenza se non i fatturati dei Retail, ovvero dei negozi dislocati. Le società sorelle possono scambiarsi i dati e ciò permette di spostare le voci in positivo fuori dall’Italia riducendo così gli oneri fiscali nel nostro Paese. Ma la legge che consente alle multinazionali come l’Ikea questi giochetti contabili e finanziari è la Legge 311 del 2004: prevede che i gruppi con sede legale nei cosiddetti paradisi fiscali facciano riferimento al quel regime fiscale anche se operano in Italia. Legale? Certo che sì. Inoltre, annota infine Vita, pure «la pratica di istituire società che detengano la “proprietà intellettuale” di un marchio in Paesi con un regime fiscale di favore è lecita. Le pratiche societarie che ne derivano sono tutte legali, e il risultato… alla fine accontenta tutti: le società che risparmiano sulle tasse, e i clienti che grazie ai minori costi sostenuti dalle aziende possono pagare prodotti di qualità a piccoli prezzi. Gli unici poco soddisfatti sono i governi, che assistono impotenti alla creazione di profitti stellari senza poterli tassare, restituendo così anche al cliente medio di Ikea ulteriori vantaggi in termini di servizi pubblici».
Il “sandwich olandese” (altro nome in codice) di Ikea, come abbiano visto già piuttosto piccante, ha un’ultima pietanza, alquanto indigesta: la stucchevole pubblicità gay friendly e fintamente solidale. All’insegna del claim «Siamo aperti a tutte le famiglie», qualche tempo fa la multinazionale si è autopromossa nel mondo gay con i giganteschi cartelloni dei due uomini che mano nella mano, passeggiano per il grande magazzino reggendo borse gialle e blu cariche di nuove compere. Insomma, furbetti fino in fondo i nuovi creativi di mister Kamprad, il fondatore che iniziò la sua fortuna vendendo fiammiferi a Stoccolma. Abili nello sfruttare le leggi a favore del profitto, arrivando addirittura a reclamare l’etichetta di azienda no profit, maestri a cavalcare l’onda dei nuovi diritti Lgbt. É bene ricordarselo quando andremo a comprare da loro l’albero di Natale ecologico o il peluche solidale venduti per finanziare le campagne del Wwf e di Save the children. Il buon cuore svedese non c’entra, è solo furbastro marketing olandese che se la spassa al sole delle Antille. di Luigi Santmbrogio per Lanuovabq
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