San Ioannes Paulus PP. II

Il 13 aprile 1986 Giovanni Paolo II entrò nella Sinagoga di Roma. La prima volta dai tempi di Pietro

Giovanni Paolo II visita la sinagoga di Roma il 13 aprile 1986. E’ la prima volta che un Pontefice entra in un tempio ebraico. Papa Wojtyla prosegue, in questo modo, la strada iniziata da Giovanni XXIII, il quale, nel 1959, aveva fatto fermare il corteo pontificio sul Lungotevere per benedire gli ebrei che uscivano dalla Sinagoga. Papa Giovanni Paolo II viene accolto dalle autorità religiose ebraiche e dal Rabbino Capo di Roma Elio Toaff, con il quale, al termine della cerimonia, scambierà un abbraccio fraterno.

E’ il 1986 e Giovanni Paolo II, primo papa nella storia dai tempi dell’apostolo Pietro, visita una sinagoga ebraica. Lo fa ovviamente a Roma dove vive la più antica comunità ebraica della diaspora nonché quella più di tutte a contatto con ogni fase della vita del cristianesimo essendo insidiata sulle rive del Tevere da 22 secoli. Accolto con gioia e a braccia aperte dal rabbino capo Elio Toaff, per molti ebrei Wojtyla è il pontefice che più ha fatto per avviare un proficuo dialogo ebraico-cristiano, ma la Chiesa è vicina al popolo ebraico da molto prima.

Il cuore di quell’incontro fu in questa affermazione divenuta celebre all’interno di un ampio discorso di amicizia e fraternità:
la Chiesa di Cristo scopre il suo “legame” con l’Ebraismo “scrutando il suo proprio mistero”. La religione ebraica non ci è “estrinseca”, ma in un certo qual modo, è “intrinseca” alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori.

E come raccontava quasi un anno fa, durante la beatificazione di Giovanni Paolo II, alle agenzie, è “scritto nel Talmud” – spiega Toaff – “Ogni generazione conosce l’avvicendarsi di 36 uomini giusti, dalla cui condotta dipendono i destini dell’uomo. Sono questi i giusti delle nazioni, che portano in sè più degli altri la shekhinah, la presenza di Dio’. Sono i giusti che ci indicano la via del bene, avendo dedicato la loro vita al servizio del prossimo e alla gloria dell’Eterno. Nell’ebraismo, come è noto, non ci sono santi, ma soltanto giusti, e la canonizzazione di un santo è un fatto interno della Chiesa cristiana. Ma noi ebrei in questo momento vogliamo sottolineare che niente si attaglia meglio alla figura di Giovanni Paolo II della qualifica di giusto”.




Durante il suo pontificato, Karol Wojtyla agì concretamente per un riavvicinamento tra Chiesa ed Ebraismo, già avviato proprio da Giovanni XXIII, che nel 1959 benedì gli ebrei che un sabato uscivano dal Tempio maggiore e volle la soppressione dell’espressione “perfidi giudei” nella liturgia del Venerdì Santo. Ma fu Giovanni Paolo II a compiere un passo irreversibile nella distensione dei rapporti tra cattolici ed ebrei, poi sancita con la dichiarazione conciliare Nostra aetate, con la visita del 13 ottobre 1986 alla Sinagoga di Roma, primo pontefice a pregare in un tempio ebraico (Repubblica, 18 aprile 2014).

Nella sua giovinezza polacca – Wojtyla – ha avuto molti amici ebrei e la sua memoria è stata segnata per sempre, oltre che dal comunismo, dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale e dalla deportazione degli israeliti nei campi di concentramento nazisti, specie ad Auschwitz (che sorgeva in territorio polacco). Il coronamento di questa amicizia ebraico-cristiana sarà il pellegrinaggio in Terra Santa nel marzo del 2000, anno giubilare, con l’intensa preghiera presso il Muro del Pianto di Gerusalemme e la spettacolare immagine del pontefice curvo che inserisce tra le fessure del muro – dove gli ebrei collocano le loro preghiere a Dio – la richiesta di perdono per le colpe dei cristiani nei confronti degli ebrei durante il bimillenario cammino della Chiesa (Il Sole 24 ore, 30 aprile 2011).




A cura di Redazione Papaboys fonte: Aleteia

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