Sin dai primi secoli è sempre stato assai difficile reperire corpose notizie sulle vite dei martiri in quanto, pur costituendo essi la più importante schiera di santi, i cristiani sovente non hanno forse ritenuto più di tanto opportuno tramandare numerosi dettagli circa la loro esistenza terrena, quanto piuttosto porre in dovuto risalto l’estrema testimonianza della fede cristiana che diedero sino all’effusione del proprio sangue. Questo problema sussiste però talvolta anche per martiri dell’epoca moderna soprattutto se vissuti in terre lontane, parlando da europei, e magari uccisi in giovane età. Così anche San Pietro Yu Tae-ch’ol, di nazionalità coreana ed ucciso appena tredicenne. Pietro nacque nel 1826 ad Ipjeong, nei pressi di Seoul, odierna capitale della Corea del Sud. All’età di soli tredici anni, forse neppure compiuti visto che ignoriamo il giorno esatto della nascita, fu imprigionato a Seoul dai nemici della fede cristiana. Durante il periodo trascorso in carcere non mancò mai di esortare i compagni di prigionia a sopportare i numerosi supplizi cui erano sottoposti. Patite anch’egli numerose sofferenze, portò a compimento il martirio per strangolamento. Era il 21 ottobre 1839. Pietro Yu Tae-ch’ol fu beatificato il 5 luglio 1925 sotto il pontificato di Pio XI ed infine canonizzato da Papa Giovanni Paolo II il 6 maggio 1984 con altri 102 martiri, indigeni e missionari europei, che avevano irrorato con il loro sangue la terra coreana. Il gruppo, noto con il nome “Santi Andrea Kim Taegon, Paolo Chong Hasang e compagni”, è festeggiato comunemente dal calendario liturgico latino al 20 settembre. Il piccolo martire Pietro Yu Tae-ch’ol è inoltre commemorato singolarmente nel Martirologio Romano al 21 ottobre, anniversario del martirio. L’estrema testimonianza di questo ragazzo può costituire un eloquente modello in questa società impregnata di relativismo in cui il cristianesimo è ormai per tanti giovani una voce scomoda fra tante, Cristo un qualcuno per cui non merita dare la vita.
La storia della Chiesa cattolica in Corea è relativamente recente e ha un inizio singolare: alla fine del XVIII secolo, alcuni eruditi entrarono in contatto con i testi biblici in cinese portati nel loro paese da alcuni missionari occidentali ed iniziarono a studiare autonomamente la dottrina cattolica. Nel 1784 uno di loro, Lee Seung Hun, fu inviato a Pechino per essere battezzato dai missionari cattolici; tornato in patria battezzò gli altri membri del suo gruppo, dando vita così alla Chiesa coreana senza alcun apporto esterno. Nell’Ottocento la neonata Chiesa fu colpita dalle persecuzioni. Nel 1866 i cristiani coreani subirono il martirio più doloroso della loro storia: più di diecimila fedeli furono massacrati, la metà di tutti quelli esistenti nel Paese. La libertà di professare il cattolicesimo fu raggiunta nel 1886, a seguito di un trattato tra Corea e Francia. Le persecuzioni però non terminarono: nel maggio del 1901 venne compiuto un altro massacro di 700 cristiani. Nel 1910 l’invasione giapponese portò nuove limitazioni alla professione della fede cristiana. Alla fine della Seconda guerra mondiale il paese fu diviso in due stati dalle due superpotenze. Le entità statali scesero in guerra tra loro.
Al Nord: Alla metà del secolo il 30% degli abitanti della capitale Pyongyang professava la fede cattolica, contro l’1% del resto del Paese. Durante la Guerra di Corea (1950-1953) le truppe comuniste diedero la caccia a missionari, religiosi stranieri e cristiani coreani, inseguendoli persino nel Sud. Lo scopo del regime nordcoreano era distruggere ogni presenza cristiana. Al nord vennero distrutti tutti i monasteri e le chiese; i monaci e i sacerdoti furono arrestati e condannati a morte. All’inizio della guerra fu arrestato anche il primo delegato apostolico in Corea, il vescovo Patrick James Byrne: pur essendo cittadino statunitense, fu condannato a morte, ma la sentenza non venne eseguita. Fu deportato in un campo di concentramento, dove morì qualche mese dopo tra stenti e privazioni. Di cosa successe ai cristiani negli anni seguenti non si hanno più notizie perché il regime coreano è tra i più chiusi verso l’esterno. Ancora non si conosce la sorte dei 166 sacerdoti e religiosi presenti nel Nord alla fine della guerra. Oggi la Chiesa del nord rimane senza clero e senza culto. Secondo i dati ufficiali, i cattolici nordcoreani sono circa 4.000, oltre a circa 12.000 protestanti. I dati però si riferiscono all’Associazione dei cattolici nordcoreani, controllata dal governo. Le chiese autorizzate sono solamente tre in tutto il Paese, concentrate nella capitale Pyongyang: due sono protestanti (le chiese di Bongsu e di Chilgol) e una cattolica (la chiesa di Changchung, per molti una “vetrina” a uso del regime). Ad oggi l’annuario pontificio continua ad indicare come vescovo di Pyongyang, monsignor Francis Hong Yong-ho, che avrebbe ormai superato il secolo di vita, ma del quale non si hanno più notizie. La comunità cristiana è sottoposta ad una dura repressione da parte delle autorità. Un cristiano è doppiamente malvisto: accusato di slealtà verso il regime e sospettato di rapporti con la Cina. Secondo il rapporto 2010 dell’organizzazione non governativa “Porte Aperte” (Open Doors International), almeno ottomila cristiani sono attualmente in catene nei sei campi di lavoro conosciuti. La maggioranza dei fedeli è costretta ad esprimere la propria fede in segreto. Nel Paese comunista, essere “scoperti” mentre si partecipa ad una messa in un luogo non autorizzato può comportare pene detentive e, nei casi peggiori, la tortura e anche la pena capitale. Anche il solo fatto di possedere una Bibbia è considerato un reato che può portare alla pena di morte. Il 16 giugno 2009 una cristiana di 33 anni, Ri Hyon-ok, è stata condannata a morte e giustiziata per aver “messo in circolazione delle Bibbie”.
La Corea del Nord è il paese che perseguita di più i cristiani nel mondo. Lo ha stabilito il consueto rapporto annuale sulla persecuzione dei cristiani stilato dall’organizzazione internazionale Open Doors, il regime ateo-comunista di Pyongyang è il più repressivo nei confronti dei cristiani, peggio anche di Arabia Saudita (secondo posto), Afghanistan e Iraq (terzo e quarto). Sul rapporto si legge che si «contrasta con veemenza ogni tipo di religione. I cristiani sono visti come persone ostili, meritevoli di arresto, detenzione, tortura e anche esecuzioni pubbliche». Secondo le stime di Open Doors, «nonostante la pesante repressione, esiste un movimento crescente di chiese sotterranee che conta circa 400 mila cristiani» su una popolazione di 24,5 milioni di abitanti. Riferendosi poi al terribile campo di concentramento per prigionieri politici di Yodok, il rapporto ricorda che «in Corea del Nord c’è un sistema di campi di lavoro, compreso il famigerato campo n. 15, dove si trovano almeno 6 mila cristiani». Secondo una fonte di Daily Nk, organo di informazione composto da dissidenti del Nord, «le autorità nordcoreane dividono i dissidenti in diverse categorie a seconda della ragione per cui cercano di scappare. Quelli che portano con sé una Bibbia o hanno stretto contatti con cristiani cinesi vengono di solito giustiziati». Un cristiano è stato recentemente ucciso proprio per questi motivi. Ricordiamo che assieme alla Cina, la Corea del Nord è uno dei pochi Paesi che ancora è guidato ufficialmente dall’ateismo di stato.
Al Sud: Nel Sud la Chiesa gode di libertà religiosa ed è governata da vescovi locali. Dal 1962, infatti, i vescovi europei hanno lasciato il posto a vescovi coreani. Attualmente la Corea del Sud è il terzo paese asiatico per numero di cattolici, superato solo da Filippine e Vietnam. a cura di Giovanni Profeta