Natale vietato in Brunei, piccolo sultanato nel Sud-est asiatico in cui vige la sharia, la legge islamica. La pena per quanti – musulmani e non – celebreranno la festa in piazza o nei luoghi pubblici è di cinque anni di prigione oppure una multa di 20mila dollari. L’ordinanza è stata emessa dal sultano stesso, per evitare che festeggiamenti “eccessivi e aperti” possano spingere la popolazione musulmana – la grande maggioranza – lontano “dalla giusta strada”.
La direttiva risale ai mesi scorsi ed è stata confermata questi giorni dai vertici del Paese, con il pieno sostegno dei leader religiosi islamici. Ai cristiani resta la facoltà di celebrare la ricorrenza del Natale, ma lo possono fare solo “in privato” e dopo aver “avvisato in via preventiva” alle autorità.
Fra i gesti legati alla festa cristiana ritenuti “offensivi” e per questo dichiarati fuorilegge vi sono: l’indossare simboli religiosi come croci e accendere candele; inoltre, addobbare alberi di Natale, montare decorazioni, cappelli di Babbo Natale, cantare inni religiosi e inviare auguri.
Imam e studiosi musulmani del Brunei hanno ripetuto in questi giorni che contenere le celebrazioni natalizie è fondamentale per evitare che si possano “causare danni” alla fede islamica. Tuttavia, alcuni cittadini (nella foto) del Sultanato hanno voluto sfidare il bando pubblicando sui social network alcune foto legate al Natale, aggiungendo l’hashtag #MyTreedom. Si tratta di una campagna internazionale che invita a promuovere la festa anche nei Paesi in cui – vedi Arabia Saudita – i simboli e le feste cristiane sono proibiti.
Il Brunei è una nazione ricchissima di petrolio; il Paese è in grado di produrre oltre 180mila barili a giorno e la sua esportazione (assieme al gas naturale) rappresenta più della metà del Prodotto interno lordo (Pil) annuale. Nella primavera del 2014 il 69enne sultano Hassanal Bolkiah ha introdotto la legge islamica, che si applica a musulmani (e non) e prevede condanne a morte per lapidazione agli adulteri e omosessuali, amputazione degli arti ai ladri, fustigazioni per altri reati quali aborto e consumo di alcol, pena di morte per blasfemia.
Del resto le pressioni esercitate dal potere politico in questi ultimi anni sulla società sono sottili ma costanti, la stampa locale non perde occasione per parlare di conversioni dal cristianesimo all’islam; per il percorso inverso ora è prevista la pena di morte per apostasia. Ed è diventata così la nazione dell’Asia del Sud-est in cui l’applicazione della legge islamica assume una forma sempre più draconiana e riguarda tutti i cittadini, a prescindere dalla fede religiosa professata.
Il Sultanato del Brunei è un piccolo Stato sull’isola del Borneo, che condivide con altre due nazioni di dimensioni ben più grandi e anch’essi musulmani: Indonesia e Malaysia. È un Paese sviluppato e fra i più ricchi al mondo. La lingua ufficiale è il malay, ma sono di uso comune anche l’inglese e il cinese assai diffusi nella popolazione.
Quasi il 70% degli abitanti di questa monarchia assoluta di circa 400mila abitanti è di religione musulmana e di etnia Malay, il 13% buddisti di origine soprattutto cinese, seguiti da popolazione indigena e altri gruppi minori; il 10% dice di non professare alcuna religione, mentre i cristiani – metà dei quali cattolici di cui il 70% migranti filippini, il 20% indonesiani e il rimanente popolazione indigena – sono circa il 10% del totale.
Redazione Papaboys (Fonte www.asianews.it)