Un algoritmo di Facebook ha regalato per fine anno ai suoi utenti un album fotografico del 2014 con le foto che hanno postato. A Eric Meyer però il regalo non è piaciuto perché il 7 giugno 2014, per colpa del cancro, ha perso la figlia il giorno stesso del suo sesto compleanno e non aveva nessuna voglia di rivedere il proprio dolore.
Per lui la foto postata per condividere la gioia di quel momento era diventata la memoria di un dolore privato, privatissimo. Fb si è scusato ma fino a un certo punto perché le autorizzazioni le diamo noi quando, compulsivamente, schiacciamo accetta, accetta, autorizzo, autorizzo. D’altra parte che fare? È come salire su una aereo o su un treno: non decidi tu la rotta. Quando sali – quandi ti iscrivi – devi per forza stare alle regole che altri hanno deciso. L’alternativa è non viaggiare, non muoversi, non stare sui social, non usare Internet. Ma non sono alternative, lo capiamo tutti. A meno di fare come alcune minoranze rispettabili che hanno deciso di vivere “nonostante” il proprio tempo, o, addirittura, “contro” il proprio tempo. Volenti o nolenti siamo tutti su Internet ed è come se fossimo tutti alla guida di un auto senza avere la patente e senza che ci siano vere e proprie norme di circolazione.
La civiltà è spinta ciclicamente ad affrontare dei balzi di responsabilità, e, questa volta, sarebbe bello avvenisse prima di farci troppo male, prima di arrivare sull’orlo dell’autodistruzione. Vediamo se con Internet saremo più bravi che con l’ecologia. Mia nonna svuotava la padella con l’olio della frittura negli scarichi dell’acqua perché non aveva coscienza di quanti danni facesse una cosa del genereall’ambiente. Prima di parlare di mondo pulito siamo arrivati quasi distruggerlo. Vediamo se con Internet sapremo cambiare prima di arrivare sull’orlo del baratro. Forse è il caso di imparare dal passato per poter vivere il nostro futuro che è già qui. Proviamo a vivere correttamente nei social e su Internet prima di veder invasa e corrosa la nostra vita e quella dei nostri cari.
Impariamo cosa vuol dire postare, likare, condividere. Come abbiamo imparato a guardare a destra e sinistra prima di attraversare, così dovremmo imparare a pensare al futuro di una persona prima di mettere in Rete la sua foto con il reggiseno rosa della mamma. Perché mia figlia di un anno sarà certamente una donna pubblica.
Quest’espressione – donna pubblica – devo togliermi dalla testa che significhi solo attrice, persona famosa, imprenditrice rampante. Significa semplicemente “pubblicata”. Prima ancora di pensare alla pedofilia – che è un’emergenza – pensiamo che forse quando sarà grande non sarà contenta del fatto che tutto il mondo possa vedere una foto di lei sul vasino.
Su Internet non si dimentica nulla. Già oggi, se compri della musica in Rete, dopo quattro ore trovi la pubblicità di cose simili sul tuo profilo Facebook. I computer sanno cosa compri e non sbagliano. Non c’è dimenticanza, oblio, pulizia a fondo che possa cancellare un nostro post, una nostra foto, un nostro mi piace. Ciò che è pubblico non è più privato. Quando pubblico, divento pubblico: non è virtuale, è reale. Chi passa, chi legge, può copiare e incollare, condividere, aggiungere in galleria. Chiunque può mettersi in tasca, nello smartphone, la nostra vita. Tua figlia sarà certamente un personaggio pubblico perché nell’era digitale lo siamo tutti.
Però, chiedo, è possibile vivere da assediati? È possibile non vivere il proprio tempo?
A tutti noi è chiesto un salto culturale che non riguarda solo cosa noi scriviamo ma anche la capacità di farsi due domande quando leggiamo post di altri. L’obiettivo è quello di imparare a chiedersi: questa frase e questa foto in quale contesto sono state scritte o scattate? È un’esigenza di verità. Non è uguale il “ti sta bene” che la mamma dice a Pierino che ha preso votaccio a scuola per aver studiato troppo poso, rispetto al “ti sta bene” che un innamorato dice alla persona che ama perché la vede con un vestito nuovo.
Impariamo a scrivere ma impariamo anche a leggere. Nei curricula del futuro un potenziale datore di lavoro saprà che mio padre aveva pubblicato su Fb una foto di me bambino mentre non riuscivo a giocare con i Lego con il commento “non riuscirai mai nelle costruzioni”. Sì, lo saprà, ma dovrà essere così intelligente da valutare il contesto e saper dare il giusto peso alla cosa e capire che forse il master in ingegneria è più importante.
Non possiamo tornare indietro. Siamo tutti nel grande mare di Internet. Se non vogliamo annegare, dobbiamo – tutti – imparare a nuotare e smettere di ostinarci a dire che “camminare era meglio e che un uomo è fatto per stare in piedi sulle sue due gambe”. L’uomo cammina sulle gambe ma anche no. Può usare mille protesi e adattarsi a mille situazioni. Ma ad usare il cervello per metterlo al servizio del rispetto proprio e altrui, non può rinunciare.
Di Don Mauro Leonardi
Articolo tratto da L’Huffingtonpost