Il Card. Ratzinger sul Concilio Vaticano II

Riportiamo integralmente l’indirizzo dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, all’epoca prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, alla Conferenza Episcopale Cilena (13 luglio 1988). Papa Benedetto XVI, ha poi sviluppato i concetti elaborati per l’episcopato cileno, nella cosiddetta “ermeneutica della continuità”, per una corretta applicazione del Concilio:  Negli ultimi mesi abbiamo lavorato molto intorno al caso Lefebvre, con l’intenzione sincera di creare per il suo movimento un spazio all’interno della Chiesa, spazio che sarebbe stato sufficiente perché esso potesse vivere. La Santa Sede è stata criticata per questo. Si dice che non ha difeso il Concilio Vaticano II con energia sufficiente; che, mentre ha trattato i movimenti progressisti con severità grande, ha mostrato una simpatia esagerata con la rivolta tradizionalista. Lo sviluppo degli eventi è sufficiente per confutare queste asserzioni. L’[accusa di] rigorismo del Vaticano di fronte alle deviazioni dei progressisti, presentato in modo mitico, è apparsa essere soltanto un discorso vuoto. Finora, infatti, sono stati pubblicati soltanto dei moniti; in nessun caso ci sono state pene canoniche rigorose in senso stretto. Ed il fatto che, quando le cose si sono messe male, Lefebvre ha ritrattato un accordo che già era stato firmato, indica che la Santa Sede, se ha fatto concessioni davvero generose, non gli ha garantito quella licenza completa che egli desiderava. Lefebvre ha visto che, nella parte fondamentale dell’accordo, era obbligato ad accettare il Vaticano II e le affermazioni del Magistero post conciliare, secondo l’autorità propria di ogni documento. C’è una contraddizione evidentissima nel fatto che è proprio chi non ha perso occasione per far conoscere al mondo la propria disobbedienza al Papa ed alle dichiarazioni magisteriali degli ultimi 20 anni, che pensa di avere il diritto di giudicare che questo atteggiamento è troppo blando e che desidera che si fosse insistito su un’obbedienza assoluta al Vaticano II. Così pure costoro sostengono che il Vaticano ha concesso il diritto di dissentire a Lefebvre, diritto che è stato rifiutato ostinatamente ai fautori di una tendenza progressista. In realtà, l’unico punto che è affermato nell’accordo, secondo Lumen Gentium 25, è il fatto limpido che non tutti i documenti del Concilio hanno la stessa autorità. Per il resto, è stato indicato esplicitamente, nel testo che è stato firmato, che le polemiche pubbliche devono essere evitate e che è richiesto un atteggiamento di rispetto positivo per le decisioni ufficiali e le dichiarazioni.

È stato concesso, in più, che la Fraternità San Pio X possa presentare alla Santa Sede – la quale si riserva l’esclusivo diritto di decisione – le sue difficoltà particolari rispetto alle interpretazioni delle riforme giuridiche e liturgiche. Tutto ciò mostra che in questo dialogo difficile Roma ha unito chiaramente la generosità, in tutto quello che è negoziabile, alla fermezza nel necessario. La spiegazione che Mons. Lefebvre ha dato, per la ritrattazione del suo accordo, è indicativa. Ha dichiarato che infine ha capito che l’accordo che ha firmato mira soltanto ad integrare la sua fondazione “nella Chiesa Conciliare”. La Chiesa Cattolica in unione con il Papa è, secondo lui, “la Chiesa Conciliare”, che ha rotto con il suo passato. Sembra effettivamente che non riesca più a vedere che qui si tratta della Chiesa Cattolica nella totalità della sua Tradizione e che il Vaticano II appartiene ad essa. Senza alcun dubbio, il problema che Lefebvre ha posto non è finito con la rottura del 30 giugno. Sarebbe troppo semplice rifugiarsi in una specie del trionfalismo e pensare che questa difficoltà abbia cessato di esistere dal momento in cui il movimento condotto da Lefebvre si è separato con una rottura formale con la chiesa. Un cristiano non può mai, o non dovrebbe, compiacersi di una rottura. Anche se è assolutamente certo che la colpa non può essere attribuita alla Santa Sede, è un dovere per noi esaminarci, tanto circa quali errori abbiamo fatto, quanto quali, persino ora, stiamo facendo. I criteri con cui giudichiamo il passato nel decreto del Vaticano II sull’ecumenismo devono essere usati – come è logico – per giudicare pure il presente.

Una delle scoperte fondamentali della teologia dell’ecumenismo è che gli scismi possono avvenire soltanto quando determinate verità e determinati valori della fede cristiana non sono più vissuti ed amati all’interno della chiesa. La verità che è marginalizzata diventa autonoma, rimane staccata dal tutto della struttura ecclesiastica ed è allora che un nuovo movimento si forma intorno ad essa. Dobbiamo riflettere su questo fatto: che tantissimi cattolici, lontani dalla cerchia stretta della fraternità di Lefebvre, vedono questo uomo come guida, in un certo senso, o almeno come alleato utile. Non bisognerà attribuire tutto a motivi politici, a nostalgia, o a fattori culturali di importanza secondaria. Queste cause non sono capaci di spiegare l’attrattiva che è sentita anche dai giovani, e particolarmente dai giovani, che vengono da molte nazioni davvero differenti e che sono immersi in realtà politiche e culturali completamente diverse. Certamente mostrano ciò che è, da ogni punto di vista, una prospettiva limitata e parziale; ma non c’è alcun dubbio che un fenomeno di questa portata sarebbe inconcepibile se non ci fossero qui all’opera dei valori, che generalmente non trovano sufficienti possibilità di realizzarsi all’interno della Chiesa di oggi. Per tutti questi motivi, dobbiamo considerare tutta la questione soprattutto come l’occasione per un esame di coscienza. Dovremmo non avere paura di farci noi stessi domande fondamentali, circa i difetti della vita pastorale della Chiesa, che emergono da questi fatti. Così dovremmo poter offrire un posto all’interno della chiesa a coloro che lo stanno cercando e domandando e riuscire a eliminare ogni ragione per uno scisma. Possiamo rendere tale scisma privo di motivazioni rinnovando le realtà interne della chiesa. Ci sono tre punti, io penso, che è importante considerare.

Se ci sono molti motivi che potrebbero condurre tantissima gente cercare un rifugio nella liturgia tradizionale, quello principale è che trovano che essa ha conservato la dignità del sacro. Dopo il Concilio, ci sono stati molti preti che hanno elevato deliberatamente la “desacralizzazione” a livello di un programma, sulla pretesa che il nuovo testamento ha abolito il culto del tempio: il velo del tempio che è stato strappato dall’alto al basso al momento della morte di Cristo sulla croce è, secondo certuni, il segno della fine del sacro. La morte di Gesù, fuori delle mura della città, cioè, dal mondo pubblico, è ora la vera religione. La religione, se vuol avere il suo essere in senso pieno, deve averlo nella non sacralità della vita quotidiana, nell’amore che è vissuto. Ispirati da tali ragionamenti, hanno messo da parte i paramenti sacri; hanno spogliato le chiese più che hanno potuto di quello splendore che porta a elevare la mente al sacro; ed hanno ridotto la liturgia alla lingua e ai gesti di una vita ordinaria, per mezzo di saluti, i segni comuni di amicizia e cose simili. Non c’è dubbio che, con queste teorie e pratiche, hanno del tutto misconosciuto l’autentica connessione tra il vecchio ed il nuovo testamento: s’è dimenticato che questo mondo non è il regno di Dio e che “il Santo di Dio”

(Gv 6,69) continua ad esistere in contraddizione a questo mondo; che abbiamo bisogno di purificazione prima di accostarci a lui; che il profano, anche dopo la morte e la resurrezione di Gesù, non è riuscito a trasformarsi nel “santo”. Il Risorto è apparso, ma a quelli il cui il cuore era ben disposto verso di Lui, al Santo; non si è manifestato a tutti. È in questo modo che un nuovo spazio è stato aperto per la religione a cui tutti noi ora dobbiamo sottometterci; questa religione che consiste nell’accostarci alla famiglia del Risorto, ai cui piedi le donne si prostravano e lo adoravano. Non intendo ora sviluppare ulteriormente questo aspetto; mi limito sinteticamente a questa conclusione: dobbiamo riacquistare la dimensione del sacro nella liturgia. La liturgia non è una festa; non è una riunione con scopo di passare dei momenti sereni. Non importa assolutamente che il parroco si scervelli per farsi venire in mente chissà quali idee o novità ricche di immaginazione. La liturgia è ciò che fa sì che il Dio Tre volte Santo sia presente fra noi; è il roveto ardente; è l’alleanza di Dio con l’uomo in Gesù Cristo, che è morto e di nuovo è tornato alla vita. La grandezza della liturgia non sta nel fatto che essa offre un intrattenimento interessante, ma nel rendere tangibile il Totalmente Altro, che noi [da soli] non siamo capaci di evocare. Viene perché vuole. In altre parole, l’essenziale nella liturgia è il mistero, che è realizzato nel ritualità comune della Chiesa; tutto il resto lo sminuisce. Alcuni cercano di sperimentarlo secondo una moda vivace, e si trovano ingannati: quando il mistero è trasformato nella distrazione, quando l’attore principale nella liturgia non è il Dio vivente ma il prete o l’animatore liturgico.

Oltre alle questioni liturgiche, i punti centrali del conflitto attualmente sono la presa di posizione di Lefebvre contro il decreto che tratta della libertà religiosa ed al cosiddetto spirito di Assisi. È qui che Lefebvre stabilisce le linee di demarcazione fra la sua posizione e quella della chiesa cattolica. C’è poco da dire: ciò che sta dicendo su questi punti è inaccettabile. Qui non vogliamo considerare i suoi errori, piuttosto desideriamo chiederci dove vi è mancanza di chiarezza in noi stessi. Per Lefebvre la posta in gioco è la battaglia contro il liberalismo ideologico, contro la relativizzazione della verità. Non siamo ovviamente in accordo con lui sul fatto che – capito secondo le intenzioni del papa – il testo del Concilio o la preghiera di Assisi inducano al relativismo. È un’operazione necessaria difendere il Concilio Vaticano II nei confronti di Mons. Lefebvre, come valido e come vincolante per Chiesa. Certamente c’è una mentalità dalla visuale ristretta che tiene conto solo del Vaticano II e che ha provocato questa opposizione. Ci sono molte presentazioni di esso che danno l’impressione che, dal Vaticano II in avanti, tutto sia stato cambiato e che ciò che lo ha preceduto non abbia valore o, nel migliore dei casi, abbia valore soltanto alla luce del Vaticano II. Il Concilio Vaticano II non è stato trattato come una parte dell’intera tradizione vivente della Chiesa, ma come una fine della Tradizione, un nuovo inizio da zero. La verità è che questo particolare concilio non ha affatto definito alcun dogma e deliberatamente ha scelto di rimanere su un livello modesto, come concilio soltanto pastorale; ma molti lo trattano come se si fosse trasformato in una specie di super-dogma che toglie l’importanza di tutto il resto. Questa idea è resa più forte dalle cose che ora stanno accadendo. Quello che precedentemente è stato considerato la più santa – la forma in cui la liturgia è stata trasmessa – appare improvvisamente come la più proibita di tutte le cose, l’unica cosa che può essere impunemente proibita. Non si sopporta che si critichino le decisioni che sono state prese dal Concilio; d’altra parte, se certuni mettono in dubbio le regole antiche, o persino le verità principali della fede – per esempio, la verginità corporale di Maria, la Resurrezione corporea di Gesù, l’immortalità dell’anima, ecc. – nessuno protesta, o soltanto lo fa con la più grande moderazione. Io stesso, quando ero professore, ho visto come lo stesso Vescovo che, prima del Concilio, aveva licenziato un insegnante che era realmente irreprensibile, per una certa crudezza nel discorso, non è stato in grado, dopo il Concilio, di allontanare un professore che ha negato apertamente verità della fede certe e fondamentali.

Tutto questo conduce tantissima gente chiedersi se la Chiesa di oggi è realmente la stessa di ieri, o se l’hanno cambiata con qualcos’altro senza dirlo alla gente. La sola via nella quale il Vaticano II può essere reso plausibile è di presentarlo così come è: una parte dell’ininterrotta, dell’unica tradizione della Chiesa e della sua fede. Non c’è il minimo dubbio che, nei movimenti spirituali dell’era post-conciliare, vi è stato frequentemente un oblio, o persino una soppressione, della questione della verità: qui forse ci confrontiamo con il problema oggi cruciale per la teologia e per il lavoro pastorale. La verità è ritenuta essere una pretesa che è troppo elevata, un trionfalismo che non può essere assolutamente ancora consentito. Vedete chiaramente questo atteggiamento nella crisi che colpisce la pratica e l’ideale missionario. Se non facciamo della verità un punto importante nell’annuncio della nostra fede e se questa verità non è più essenziale per la salvezza dell’uomo, allora le missioni perdono il loro significato. In effetti la conclusione è stata tirata, ed è stato tirata oggi, che in futuro dobbiamo soltanto cercare che i cristiani siano buoni cristiani, i buoni musulmani dei musulmani, i buoni Indù dei buoni Indù, e così via. E se arriviamo a queste conclusioni, come facciamo a sapere quando uno è “un buon” cristiano, o “un buon” musulmano? L’idea che tutte le religioni sono – a prenderle sul serio – soltanto i simboli di ciò che finalmente è incomprensibile, sta guadagnando terreno velocemente in teologia e già ha penetrato la pratica liturgica. Quando le cose giungono a questo punto, la fede è lasciata alle spalle, perché la fede realmente consiste nell’affidarsi alla verità per quanto è conosciuta. Dunque, in questa materia, ci sono tutte le ragioni per ritornar sulla retta via. Se ancora una volta riusciremo a evidenziare e vivere la pienezza della religione cattolica circa questi punti, possiamo sperare che lo scisma di Lefebvre non sia di lunga durata. a cura della Redazione Papaboys 

 

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