Marina Casini, esperta di bioetica, ricorda che venire al mondo non può mai essere un danno. Riconoscerlo presuppone l’affermazione di un diritto di uccidere. Ma una cosa è certa: tutte le famiglie in cui vi sono persone disabili meritano di essere aiutate anche economicamente dalla solidarietà pubblica dello Stato.
All’inizio dell’anno a Parma è nato Bryan senza gambe dalle ginocchia in giù e i genitori si sono rivolti ad un legale per chiedere il risarcimento del danno ai medici che non avevano scoperto la malformazione durante la gravidanza e non avevano così consentito alla madre di abortire.
Il caso, in sé doloroso, è ancor più inquietante per le implicazioni giuridiche che vi si vorrebbero collegare. La nascita può essere una danno? Chi ha diritto al risarcimento? Il figlio costretto a condurre una vita infelice? I genitori gravati dall’obbligo di mantenerlo? Gli eventuali fratelli privati delle attenzioni che i genitori devono dedicare in modo assorbente al figlio malato o con disabilità? E perché il figlio non potrebbe agire contro la madre che, informata della malformazione, non lo ha abortito?
Il caso non è nuovo. In Francia nel 2000 aveva suscitato gran clamore il caso Perruche, il piccolo affetto da una malattia ereditaria in rappresentanza del quale i genitori avevano agito contro i medici. Nella sentenza della Cassazione transalpina si legge: “il danno è la vita e l’assenza di danno è la morte. La morte diviene un dolore preferibile alla vita”. Ma due anni dopo, il 4 marzo 2002 fu approvata la legge n. 203 per cui nessuno può far valere un pregiudizio derivante soltanto dal fatto della nascita.
In Italia sono state pronunciate sentenze di contrastante contenuto, ma di recente (22 dicembre 2015) è intervenuta la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, la quale, con la massima autorità giudiziaria (le “sezioni unite”!) ha stabilito due principi fondamentali: 1) la nascita non può essere considerata un danno e non esiste un diritto a nascere sani; 2) non vi è automatismo tra l’accertamento di una grave malformazione del figlio e l’aborto, perché si deve comunque provare rigorosamente che l’accertamento dell’anomalia avrebbe determinato una grave malattia fisica o psichica della madre, non essendo ammessa nel nostro ordinamento la eliminazione di un figlio esclusivamente per ragioni eugenetiche. Bisogna anche “soppesare – ha scritto la Corte – il rischio di una reificazione dell’uomo, la cui vita verrebbe ad essere apprezzabile in ragione della sua integrità psicofisica”.
Questa decisione è importante ma non risolve tutti i problemi. Esclude che il figlio possa agire in proprio – naturalmente rappresentato dai genitori – per essere risarcito del danno da nascita, ma ammette che i medici avevano un dovere di informazione nei confronti della madre, la cui violazione determina un danno, ove si dimostri la conseguente malattia della madre e la sicurezza che ella in tal caso avrebbe abortito. Ma quale è la misura del risarcimento, se la nascita non è un danno? La risposta deve affrontare la questione se l’aborto sia un diritto sia pure sottoposto a condizioni, ovvero sia la risposta ad uno stato di necessità. Nel secondo caso la legittimazione di un comportamento altrimenti illecito non implica il diritto ad un risarcimento, qualora l’interessata non si sia avvalsa dello stato di necessità per compiere lecitamente l’azione uccisiva.
Come si vede la questione merita ulteriori approfondimenti. Ma, intanto, una cosa è certa: tutte le famiglie in cui vi sono persone disabili meritano di essere aiutate anche economicamente, ma è la solidarietà pubblica dello Stato che deve provvedere, non surrettiziamente un risarcimento privato del “danno da nascita”, il cui presupposto è l’affermazione di un diritto di uccidere.
Redazione Papaboys (Fonte www.famigliacristiana.it/Marina Casini)
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