Diceva loro che Gesù, toccandolo, aveva reinserito il lebbroso – un escluso (“mostrati al sacerdote e offri quello che Mosé ha prescritto per la tua purificazione” Mc 1,44) – nella comunità degli uomini, lo aveva collegato di nuovo con gli altri nel modo giusto. E lui c’era andato di mezzo. Era rimasto escluso a propria volta: non poteva più entrare pubblicamente in un città e doveva rimanere fuori, escluso, in luoghi deserti (Mc 1,45).
Oggi, da noi, i lebbrosi non esistono più ma ci sono quelli che soffrono di disturbi mentali, depressioni, disabilità psichiche. Sono il 20-25 per cento della popolazione. L’Oms colloca la depressione al quarto posto nella classifica delle cause di disabilità. Un uomo lebbroso, socialmente escluso, viene reinserito nella comunità umana perché un uomo – Gesù – toccandolo diventa impuro al posto suo: come fare – mi chiedo – a toccare il disabile mentale, la persona depressa, il disturbato?
Quella mamma aveva un figlio “con qualcosa che non va”. Il problema ignorato non esiste: per questo non dava nessun nome alla malattia. Probabilmente anche parlandone tra sé e sé tutta quella sofferenza era innominata, non chiamata, rimossa.
Penso a come è facile suggerire di andare dal medico per la prevenzione del cancro della pelle e come è difficile dire a chi soffre una depressione che merita l’aiuto di una terapia. Non è qualcosa che riguarda solo il pudore: un tempo parlare di ginecologi e andrologi non era possibile, oggi no, è semplice: lì abbiamo fatto dei passi in avanti, qui invece siamo fermi. Ancora adesso il disturbo mentale ti getta nelle favelas anche se vivi in palazzi più lussuosi degli alberghi. Il disabile mentale rimane in una periferia che è meglio guardarla da lontano. È più facile. È più pulito. Perché andare dallo psichiatra, fa rima con matto, con fragile, con non affidabile. Fa rima con le nostre debolezze e con quelle di chi ci sta accanto, di chi lavora e vive con noi. È difficile avere un disagio psichico: non vieni guardato come persona. Non è sufficiente stare male non volendolo: bisogna anche sentirsi colpevoli perché si fa stare male chi ci è vicino. Allora basta. Cambiamo. Accorciamo le distanze. Tocchiamo. Letteralmente, entriamo in con-tatto. La malattia è una croce già pesante. Non facciamola diventare anche solitudine.
Di Don Mauro Leonardi
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