È una vera fortuna avere come maestro e amico un uomo che ha molto pianto. Forse solo i bambini e i santi piangono senza provarne vergogna. E san Romualdo è stato l’uno e l’altro allo stesso tempo. Un bel giorno si sono aperte le cataratte mentre l’uomo di Dio si trovava a Parendo e leggeva il Salmo 31:
Ti ho confessato il mio peccato,
non ho nascosto la mia colpa;
ho detto: “Confesserò contro di me
le mie offese al Signore”,
e tu hai cancellato la colpa del mio peccato.
È stato un vero e proprio diluvio di lacrime, di pentimento e di commozione. Lacrime che da allora continueranno a scorrere, soprattutto al momento della celebrazione della messa, o talora anche quando “come un serafino d’amore” egli parla di Gesù. In seguito le lacrime sono diventate una delle caratteristiche dell’eremita camaldolese, come racconta Pier Damiani o come si legge anche nelle cronache dei primi discepoli di Paolo Giustiniani. È importante ricordarlo e anzi chiederre con forza a Dio questo dono inestimabile che fa parte della grazia del deserto.
Potrebbe sembrare che il nostro cammino di conversione, avvicinandoci sempre di più a Dio ci allontani in egual misura dal nostro peccato e dal peccato del mondo. Conseguenza logica sarebbe quella di vivere solo più esperienze di pienezza e di gioia. Ma, in realtà, le cose non sono così semplici. Certamente l’eremita che progressivamente si avvicina al Signore con tutta la sua vita è meno soggetto a mancare all’amore con il peccato, ma nello stesso tempo, e paradossalmente, impara sempre di più ciò che il peccato, suo e del mondo, rappresenta. Sì, vicinanza di Dio e ripudio del peccato aumentano o diminuiscono insieme. Quelli che chiamiamo “i peccatori”, categoria della quale evidentemente facciamo parte, non capiscono davvero fino in fondo ciò che il peccato rappresenta, mentre i santi, come ad esempio il nostro Pier Damiani, dichiarano di essere profondamente “peccatori”, mendicanti di misericordia. La scoperta del Dio che è santità assoluta e che, soprattutto, è amore, getta luce sulla nostra innata impurità e sulle nostre resistenze all’amore, e in tale luce non possiamo che dirci indegni di lui, proprio come il profeta Isaia al momento della visione nel tempio: “Ahimè!Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono” (Is 6,5). Ed esclamiamo come Pietro al momento della pesca miracolosa: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore!” (Lc 5,8). Ciò è talmente vero che vedersi nella luce di Dio significa “misurare il proprio vuoto e la propria imperfezione”.
Un’esperienza di questo tipo non può che rafforzare il nostro rapporto con Dio: “Tanto più intenso e profondo sarà il richiamo verso Dio e la confidenza in lui, quanto più profondamente sarà sentita e sperimentata la propria miseria e insufficienza”. Ricordiamo la preghiera di Paolo Giustiniani: Signore, io non oso dirti: “Dammi la luce perché io veda la tua luce”; mi basta che tu mi faccia vedere le mie tenebre … Fa’ che torni in me stesso; nella mia miseria mi sono allontanato non soltanto da te, ma da me stesso; sono divenuto straniero a me stesso. Fammi conoscere le mie tenebre, affinché in seguito possa guardare la luce… Sì, io ti dico e ti ripeterò incessantemente: “Mostrami a me stesso, affinché conosca i miei peccati”.
Può accadere che ci facciamo delle idee sbagliate sulla vita contemplativa alla quale siamo chiamati all’eremo, e che a grandi linee ci aspettiamo di fare delle felici e piacevoli esperienze. In realtà, e non c’è da farsi illusioni, ci apprestiamo invece a verificare – e chissà quante volte! – che siamo stati chiamati al deserto anzitutto per esservi umiliati, per imparare ad aver fame. “Tu sei così!”. Si pensi a certi apoftegmi dei padri del deserto:
Il diavolo si manifestò a uno dei fratelli travestito da angelo di luce e gli disse:”Io sono Gabriele e sono stato mandato da te”. Il fratello gli risponde:”Controlla bene se per caso non sei stato mandato a qualche altro fratello, perché io ne sono assolutamente indegno”. Subito il diavolo scomparve.
Chiesero a un anziano come ma certuni possono dire: “Noi abbiamo visioni di angeli”… Egli rispose:”Felice piuttosto colui che ha incessantemente davanti agli occhi i propri peccati”.
E non si pensi che il fatto di avere un senso così acuto del proprio peccato sia un ostacolo sulla via della contemplazione. Anzi al contrario, come si ricorda così bene Paolo Giustiniani, nulla è più efficace per avviare l’uomo all’orazione che la coscienza della propria miseria e il disagio in cui si trova per i suoi peccati. Infatti la mente umana, che si sente aggravata e oppressa da tanti e così svariati mali, è spinta necessariamente alla preghiera… Dalla conoscenza di se stessi nascono l’umiltà e la vera umiliazione senza le quali è impossibile piacere a Dio … Io non saprei dire con le parole e con la penna quante forme e quanti modi di preghiera produca la presa di coscienza della propria miseria, ma sono convinto che non vi è migliore orazione di quella che riesce a cavare dagli occhi umani più lacrime; lacrime, dico, di compunzione e lacrime di desiderio della patria celeste.
Certo si potrebbero muovere alcune obiezioni, oggi più che mai, all’opportunità di coltivare una stato d’animo di tal genere. Ad esempio la seguente: l’autenticità, la sincerità sono senza dubbio esigenze essenziali nel nostro rapporto con Dio; orbene, se io non ho il senso del peccato, devo costringermi lo stesso a questa condizione di spirito che mi è completamente estranea? Che ne sarà allora della mia sincerità? Devo coltivare artificialmente l’angoscia e la paura di fronte a un Dio-verità, per noi acconsentire a essere liberato da tali sentimenti all’annuncio di un Dio Padre delle misericordie, pienamente disponibile a perdonare? A che serve una simile doccia scozzese?
Un ulteriore interrogativo: sono un monaco da poco per il suo fatto che non sembro corrispondere alla definizione classica di colui che “piange su se stesso e sui propri fratelli”?
Sono certamente domande serie, che esigono risposte adeguate da parte di coloro che le pongono agli altri così come a se stessi. Gli uomini in genere sono differenti gli uni dagli altri. Anche i monaci. Può accadere dunque che all’eremo vi siano fratelli che non riescono a liberarsi di un passato piuttosto triste e altri che invece sembra quasi siano stati preservati da ogni peccato. Tuttavia la maggior parte si colloca nel giusto mezzo tra questi due estremi. Ora, è abbastanza chiaro che spesso noi non cediamo alla tentazione proprio perché essa non si rappresenta a noi, ma in tal caso capiamo che possiamo essere peccatori anche senza commettere il peccato.
“Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati” (I GV I,8-9).
Il fratello che non arriva a vedere in se stesso questo fondo di miseria, le sue ferite inerenti alla nostra condizione umana, deve sforzarsi di giungere a questa benedetta scoperta, evidentemente più con la preghiera che con l’introspezione. “Se tu non arrivi a versare lacrime sui tuoi peccati – dice Giovanni Climaco -, piangi almeno per non esservi giunto!”. Sì, tale rivelazione è frutto di una vera e propria grazia di Dio, che i nostri padri non esitavano a chiedere con insistenza, domandando nel contempo il dono delle lacrime.
Le lacrime non hanno forse lavato la prostituta da tutte le sue impurità, non hanno forse permesso a mani impure di toccare non solo i piedi ma anche il capo del Signore? Non hanno forse permesso all’apostolo che ha rinnegato non soltanto di non morire dopo la sua colpa, ma pure di ottenere la supremazia su tutti i senatori della corte celeste? Sì, esse purificano l’anima dalle macchie del peccato e riconfermano nella preghiera il cuore dubbioso. Trasformano la tristezza in gioia e, sgorgando dai nostri occhi di carne, ci orientano alla speranza del cielo.
Se è vero che oggi assistiamo a una spaventosa perdita di senso del peccato dovuta a molti fattori, sarebbe veramente triste se monaci ed eremiti si lasciassero contaminare da un virus così malsano. Se il peccato esiste, la possibilità di non considerarlo più come tale oggi sono enormi, favorite da un tipo di mentalità che giudica con una certa faciloneria qualsiasi mancanza come normale e nega ogni responsabilità personale. Io non credo che riportare gli adulti all’età di neonati che “non sanno ancora distinguere la mano destra dalla mano sinistra” sia un’esaltazione della dignità di ciascuno. È vero che il peccato deve scomparire, ma non con la dissimulazione e l’interpretazione, bensì con il pentimento, la conversione del cuore e il perdono di Dio.
Certo, possono esistere false manifestazioni del senso del peccato. Il peccato in realtà non è la semplice trasgressione di norme e precetti stabiliti, ma piuttosto la rottura di un rapporto d’amore personale. Si è peccatori davanti a Dio.
Nei confronti di una legge imperiale non ci sono che trasgressori. Ora, in molte persone si scopre un senso di colpa morboso che non dobbiamo confondere con la compunzione del cuore. Il vero senso del peccato spinge alla preghiera fiduciosa, mentre il senso di colpa morboso la rifiuta. Il vero senso del peccato è già una liberazione dal male, perché proprio mentre si commette la colpa, se non addirittura prima di commetterla, noi siamo consapevoli dell’amore di Dio che perdona e trasfigura.
La consapevolezza di essere peccatori, accompagnata da un bisogno continuo del perdono amoroso di Dio, contribuisce enormemente al nostro progresso sulla via dei comandamenti di Dio. In effetti vi è una progressione nel nostro modo di corrispondere alle esigenze della santità, non nel senso che certi comandamenti siano meno vincolanti di altri, ma in quanto noi siamo persone in cammino, che avanzano per tappe. Di solito non basta una decisione presa una volta per tutte per giungere immediatamente alla santità. Bisogna senza sosta spingersi innanzi per non fermarsi e soprattutto per non indietreggiare. Ebbene, sapere che si è ancora imperfetti, deboli, peccatori, e accettare questo cercando nello stesso tempo di fare meglio ciò che fino a quel momento era mal fatto: ecco in cosa consiste il realismo cristiano e l’umiltà, questa “porta del cielo”, come la chiamavano gli antichi. Noi dobbiamo veramente accettare di essere come il pubblicano, mentre saremmo tentati di imitare il fariseo:”O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri!” (Lc 18,11). Vorremmo essere in regola, come quest’ultimo, ma tale situazione è così abominevole agli occhi di Dio!
Quanto è preferibile invece riconoscere umilmente le proprie miserie, proprio come il pubblicano, e abbandonarsi alla misericordia di Dio!
Silvano dell’Athos dice una parola profonda:”Il figlio chiede perdono per il proprio peccato; lo schiavo cerca scuse”. È proprio il perdono chiesto e ottenuto ciò che ci fa toccare con mano che siamo stimati e amati, mentre la pretesa di essere degli eremiti completamente a posto ci priva di tale gioia e ci chiude nell’isolamento. Certo, è penoso riconoscersi peccatori, tuttavia la consapevolezza del nostro peccato non è necessariamente un’esperienza triste e scoraggiante. Al contrario, spesso può essere fonte di pace e di gioia. Un peccato riconosciuto e del quale ci si pente non è forse già un peccato perdonato? E se c’è gioia in cielo per un solo peccatore che fa penitenza, perché questa gioia non dovrebbe abitare il cuore di colui che si pente?
Ecco perché anche Giovanni Climaco parla del pènthos che si trasforma in gioia, e le lacrime di compunzione del nostro padre Romualdo a Parendo si mutano in lacrime di commozione e di facilità.
Ma vorrei ora segnalare una meravigliosa conseguenza della consapevolezza del nostro peccato nell’ambito dei nostri rapporti con i fratelli e della compassione nei confronti del mondo del quale siamo portatori e responsabili. La compunzione del cuore non può che accrescere la pace intorno a noi, perché ci fa perdere il desiderio di criticare e condannare i fratelli. Chi sa di essere profondamente peccatore “in prima persona” trova così fuori luogo occuparsi degli errori altrui… E se vi è obbligato dal suo incarico, lo fa perché quello è il suo ministero, ma sempre con misericordia, umiltà, compressione e compassione. Troppo spesso noi perdiamo la pace perché diamo un’eccessiva importanza alla trasgressione dei fratelli o dei responsabili dell’eremo. Vogliamo un mondo migliore, e abbiamo ragione, ma prima dobbiamo pensare a migliorare noi stessi. Solo chi conosce i propri limiti per esperienza può efficacemente pensare a migliorare l’ambiente in cui vive. Altrimenti rischierebbe di accrescere il male e la confusione.
Vengono in mente le parole di Giovanni Paolo II: “Ritrovare il giusto senso del peccato è di primaria importanza per affrontare la grave crisi spirituale che l’uomo del nostro tempo conosce”. Certamente è chiaro che la nostra vita in Cristo, la vita che viviamo nel profondo, non si riduce a questo. Ci sono tanti altri aspetti e quanto mai importanti, ma al ogni modo la compunzione del cuore resta sempre il solido fondamento di ogni nostra vita di unione con Dio. La compunzione fa emergere l’enorme distanza che intercorre tra la contemplazione cristiana e la spiritualità orientale non cristiana. È impensabile che un guru indù o un monaco zen si esprimano a proposito dell’esperienza spirituale negli stessi termini, ad esempio, di un Isacco di Ninive:
Colui che è sensibile ai propri peccati è più grande di colui che risuscita i morti con la preghiera. Colui che è stato reso degno di vedere se stesso è più grande di colui che è stato reso degno di vedere gli angeli.
Ecco ciò che spiega il nascondimento, la dolcezza, la bontà sconvolgente di questi eremiti che, come nostro padre Romualdo, o più vicini a noi, un Serafim di Sarov o un Silvano del Monte Athos, hanno visto il loro volto di miseria trasfigurando in volto di gloria già qui sella terra.
(Tratto da Louis A. Lassus, Elogio del nascondimento, Qiqajon)
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