Roma – “Prima di morire, mi ha sorriso, accarezzato e mi ha detto con un filo di voce ‘Arturo grazie, grazie!’”. È questo l’ultimo, più toccante, ricordo di papa Wojtyla raccontato all’Adnkronos da Arturo Mari, il fotografo personale di Giovanni Paolo II dal primo all’ultimo giorno dei 27 anni di pontificato. Mari ha rievocato “le otto ore” trascorse al capezzale del papa, che chiese espressamente al suo segretario Dziwisz di mandarlo a chiamare.
Il fotografo di Giovanni Paolo II – in un colloquio riportato dall’agenzia italiana Adn
Kronos – ha ancora una volta smentito le voci circolate all’epoca sulle condizioni del pontefice. “Quando arrivai era coricato sul lato sinistro, aveva una mascherina di ossigeno, che era però solo appoggiata sul cuscino. Posso testimoniare dunque – ha detto Mari – che tutto ciò che si disse in quelle ore, che era già morto, che non era più vigile, che era attaccato ai tubi, è assolutamente falso“.
“Andai nel suo appartamento – ha raccontato Mari- e il segretario Dziwisz mi portò vicino al letto. Quando gli disse ‘Santo Padre, Arturo è qui’, rimasi sconvolto perché il Papa si girò verso di me con un enorme sorriso, un sorriso che non si vedeva da mesi, apri i suoi occhi enormi blu cupo. A quel punto io caddi in ginocchio, rimasi per un po’ così, lui mi accarezzò la fronte, il viso, e restammo mano nella mano, poi oltre a darmi la benedizione, con un filo di voce mi disse quella frase: ‘Arturo grazie, grazie!’. Poi – ha proseguito il suo racconto all’agenzia del Gruppo Marra – si girò di nuovo sul lato sinistro sempre con quel sorriso, e si vide che era pronto per il suo ultimo viaggio, quello molto molto più bello. Era felice“.
Wojtyla, per Mari, “ha dato testimonianza della sua santità sia nei discorsi tenuti davanti alle più grandi organizzazioni internazionali e ai capi del mondo sia tra i più ‘piccoli’“. Il fotografo ha ricordato i viaggi in Africa, quando “negli ospedali, tra i bambini malati di Aids, si inginocchia, li prende in braccio come un papà, e nello stesso tempo tiene per mano una mamma, la conforta perché questa donna sa che perderà suo figlio. O vederlo in mezzo ai lebbrosi, accarezzarli, e poi in ginocchio baciare le mani alle suore della missione, e benedirle in nome di Dio“.
Non ha dubbi, Arturo Mari: “ciò che colpiva di più in Wojtyla era la sua immensa umiltà. Questo era il suo carisma“.
Quanto al rapporto personale con Giovanni Paolo II, Mari ha assicurato: “con lui non esisteva formalità, tutti sanno che era come mio papà e che mi ha trattato come un figlio. Ho cominciato con lui quando avevo 38 anni fino ai 65 e fra noi non c’è mai stata una distanza perché io ero un fotografo e lui un papa, si viveva in famiglia, c’era confidenza. Certo – ha ammesso – io non dimenticavo mai di avere davanti il Santo padre, ma per lui ero solo Arturo“.
Il suo rapporto con la macchina fotografica o la telecamera? “Per amor di Dio – dice Mari – Per lui non esisteva posa, si mostrava così com’era. Non ha mai chiesto una foto o dato disposizioni su come farla. Anche negli ultimi anni, in quelle condizioni di grande sofferenza, non ha mai avuto vergogna di mostrarsi. Anzi – ha aggiunto – a volte ero io a chiedermi se era il caso di ‘proteggerlo’ con una foto meno cruda. Ma sono convinto che se avessi fatto qualcosa del genere, e se lui se ne fosse accorto, mi sarei preso una strigliata. Wojtyla ha dato la più grande lezione di vita sulla malattia“, Mari ha concluso il suo racconto, ma non prima di una confessione: “so che non c’è più ma non mi manca perché lo sento sempre dietro le mie spalle. Lo sento sempre vicino, mi protegge“.
E pare non protegga solo Arturo Mari.
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