Lo scrittore siciliano comunica nella novella “La Messa di quest’anno (5 marzo 1905)”, una riflessione di piena attualità: al Natale consumistico bisogna contrapporre un sentimento religioso più forte, una vera rigenerazione che serva a cambiare di dentro le persone
Il tema della festa del Natale ricorre di frequente nella produzione letteraria, poetica e artistica in generale. Ogni essere umano – e quindi anche gli scrittori – sentono il bisogno di immergersi col ricordo e con le sensazioni in quelle ore di attesa, tra un’allegra risata e la degustazione di qualche buon pranzetto, a scapito delle solite, deprecate diete: fanno da custodi a questa atmosfera sublime, serena i volti di tante persone che ci sono care, perché ci sentiamo a loro legate da un vincolo di parentela, di amicizia o di semplice simpatia. Alcuni di questi volti, poi, con l’avanzare del tempo costituiscono un’assenza; e allora subentra un sotterraneo, represso dolore per chi non partecipa più alla festa assieme a noi. In questi casi l’assenza conta più della presenza: chi è presente avverte con struggente malinconia lo strappo da chi non c’è più.
A parte questi pensieri da adulti, nell’animo di ognuno emerge sempre una componente meno impegnativa: il Natale è un modo, come un altro, di rivivere la propria infanzia e la propria adolescenza: è una festa-simbolo che tocca le radici profonde della nostra esistenza e ci pone poi tanti interrogativi.
Ma la festa non è solo quella che si vive nella dimensione privata, familiare; si sviluppa anche l’aspetto pubblico, collettivo, il rito religioso, che specie nella mia Sicilia ha un ruolo determinante e totalizzante. Cosa dire di questa ritualità religiosa? Con la sua straordinaria capacità riflessiva, Luigi Pirandello comunica in una novella una riflessione di piena attualità: al Natale consumistico bisogna contrapporre un sentimento religioso più forte, una vera rigenerazione che serva a cambiare di dentro le persone.
Nella novella di Pirandello, “La Messa di quest’anno (5 marzo 1905)”, lo spunto narrativo nasce da un prenatalizio, rigenerante desiderio di immersione nel rito religioso e sociale del Natale. Il narratore, in prima persona, racconta di questo suo viaggio alla riscoperta della festa e dei suoi riti nel villaggetto dove è nato. Egli – come ogni anno – si reca dalla zia Velia in una piccolissima borgata, Cargiore, citata assieme ad altre località della valle del Sangone, parallela alla Val di Susa, che viene ricordata nel Taccuino di Coazze, quadernetto contenente appunti presi durante un soggiorno a Val di Susa nel 1901.
Ma il Natale, quest’anno, a Cargiore ha cambiato del tutto la sua fisionomia. È bastata soltanto la sostituzione del curato. “Appena giunto a Cargiore, sei mesi or sono, don Venanzio Grotti, savojardo, cominciò a spogliare la cura (la casa parrocchiale e la chiesa) di tutte le delicatezze che le fedeli parrocchiane avevano offerto in dono al vecchio curato defunto – sant’anima. Via tende, via cortine trapunte, via dal letto parato a padiglione, via tappetini di lana, via candelabri, via tutto!”. Perfino gli ori regalati alle statue dati in elemosina! Per la zia Velia don Venanzio è stato capace di ridurre la chiesa in una stalla, priva di ogni ornamento, di ogni orpello, di quel minimo di dignità e di accoglienza dovuta al fatto di essere la dimora di Dio. La zia Velia non può contenere la sua rabbia per quello che è successo durante la Messa della notte di Natale: “E in una stalla davvero l’ha fatto nascere, jersera! S’è messa la pianeta più brutta; pareva uno straccione innanzi a quel povero altare senza luminaria, con quella tonaca inverdita che gli lascia scoperti, con licenza parlando, i fusoli delle gambe e con quelle scarpacce da contadini su la predella nuda, senza uno straccio di tappeto. E se sentissi, che prediche! Dice che Lui, Gesù vuole così; che volle nascere Lui, apposta in una stalla”. Di fronte al radicalismo della nascita in una stalla, tutta la ritualità della festa non si può più reggere in piedi: “E ci ha proibito di fare il cenone, ‘di far carnevale’, come lui dice; ci ha ingiunto di far penitenza anche oggi, perché siamo tutti ridiventati pagani”.
Fin qui il “malo Natale” della zia Velia: un prete è riuscito a schiodare dalle abitudini e dalle superficialità gli abitanti di un povero paesino.
Alla fine, però, il narratore sa come vanno le cose del mondo, quale peso e quale durata possono avere queste rivoluzioni fatte a scapito dell’ordine costituito, anche nella gerarchia cattolica: “Ma io son sicuro che il vescovo ci porterà rimedio e presto. Coraggio, zia Velia! Coraggio, mio villaggetto natale! Questo prete don Grotti è troppo logico e non può avere fortuna, segue troppo alla lettera l’insegnamento di Cristo. Via, non vorrà essere Monsignore buon cattolico?”.
di Zino Pecoraro per Agensir