E tuttavia senza rinunciare, spesso, a un tocco “personale”, a un riferimento concreto, territoriale, caratteristico del tempo in cui lavorano, immediatamente allusivo per i fedeli a cui l’opera è destinata. Così che nel “menù” della Cena del Signore, si ritrovano alcuni alimenti costanti, ma anche, di volta in volta, nuove cibarie, inattesi ingredienti. Per lo più dalla significativa valenza simbolica. Il pane, sulla tavola dell’Ultima Cena, c’è sempre. Il pane che, mancando nel deserto, è offerto al popolo d’Israele nell’inaudito dono celeste della manna. Il pane miracolosamente moltiplicato da Gesù: non dal nulla, ma da quel minimo che pur è nelle umane possibilità. Il pane che sfama, ma che non basta: «Io sono il pane di vita», dice infatti il Signore. Accanto al pane, il vino, immagine della gioia di vivere.
Perché se il pane è la base essenziale del sostentamento, il vino è quel surplus che rende il quotidiano una festa, che trasforma la normalità in occasione speciale. Dio stesso, canta il salmista, ci dà «il vino che allieta il cuore dell’uomo». Il primo svelarsi pubblico di Gesù è stato durante un banchetto di nozze, a Cana. Vino nuovo, sangue di Cristo, destinato a ogni uomo – «Bevetene tutti», dice il Signore – in un’eterna alleanza.
Nella più antica rappresentazione monumentale dell’Ultima Cena, quella nella basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, il vino però non c’è. Al centro del simposio, mirabile mosaico dei primi anni del VI secolo, si stagliano invece due grossi pesci su un vassoio. Il riferimento diretto è al miracolo della moltiplicazione effettuato da Gesù per sfamare la folla, evento prodigioso che assume il valore di una teofania, ma che ha soprattutto un significato eucaristico, là dove vengono usati i verbi «prendere», «benedire», «spezzare».
Come nell’Ultima Cena, appunto. Senza dimenticare che il pesce in sé è un simbolo cristologico, perché, come ricordava sant’Agostino nel De Civitate Dei, «se unisci le prime lettere delle cinque parole greche che significano “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore” risulterà ichthýs , cioè “pesce”: è il nome con cui si intende simbolicamente Cristo, perché ha potuto rimanere vivo, cioè senza peccato, nell’abisso della condizione mortale come nella profondità delle acque».
Ma sulla mensa del cenacolo, nelle raffigurazioni artistiche medievali, come piatto principale compare soprattutto l’agnello arrostito. «Andate a preparare per noi la Pasqua, perché possiamo mangiare», aveva detto infatti Gesù. Quella Pasqua che è memoria del gesto potente con cui Dio libera il suo popolo dalla schiavitù. Agnello pasquale che ora è Cristo stesso, come già il Battista aveva riconosciuto: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo».
E come san Paolo afferma chiaramente: «Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!». Con una identificazione così perfetta, che i più avveduti fra gli artisti non esitano a togliere proprio l’agnello dalla tavola dell’Ultima Cena, lasciando un grande piatto “vuoto”: non solo e non tanto per indicare temporalmente che si è ormai al termine del pasto, ma per mostrare come Gesù stesso sia il vero e unico agnello del sacrificio. Come fa, ad esempio, il fiammingo Dierick Bouts nel suo mirabile polittico a Lovanio o lo stesso Leonardo da Vinci nel refettorio milanese delle Grazie.
In epoca rinascimentale, inoltre, frutti e ortaggi arricchiscono sovente il desco della Cena del giovedì santo. Una cornucopia di primizie, che al di là dell’intento decorativo, ancora una volta evidenzia un universo simbolico di natura, è proprio il caso di dirlo, religiosa. Come fa ad esempio il Ghirlandaio, nei suoi raffinati Cenacoli fiorentini, dove lo sguardo si posa ora su un paio di mele, memento del peccato originale, ora su un cespo di lattuga, richiamo quaresimale alla penitenza e all’espiazione, ma anche, per le sue fibre ricche di umori, emblema della misericordia del Signore. Mentre le numerose e scarlatte ciliegie che punteggiano le bianche tovaglie di lino sono allo stesso tempo “proiezione” delle gocce di sangue che Gesù dovrà versare, ma anche anticipo delle future dolcezze di quell’Eden in cui ci condurrà il nuovo e ultimo Adamo.
Rossi sono anche i gamberi che, sorprendentemente, riempiono le tavole di numerose Ultime Cene dipinte, soprattutto fra Quattro e Cinquecento, in Veneto e Friuli, ma anche lungo tutta la dorsale alpina e prealpina, dalla Savoia al Canton Ticino. Gamberi di fiume che rappresentano, è evidente, un apprezzato alimento delle comunità locali. Ma che hanno, senza dubbio, anche una valenza simbolica, ormai, per noi oggi, di non immediata lettura.
Tanto che le interpretazioni degli studiosi variano da presunti riferimenti antisemiti o ereticali (per via di quell’andatura a ritroso tipica di questi crostacei, come di chi, insomma, si ritrae dalla verità, che è Cristo) alla denuncia, in quelle rosse corazze, del diabolico tradimento che si è insinuato con Giuda anche fra i Dodici… Laddove, tuttavia, proprio il colore vermiglio dei gamberoni dovrebbe rimandare invece a un’idea di trasformazione e di rinascita, che tali, cioè di un rosso acceso, diventano solo dopo la cottura (ovvero il “sacrificio”), come il Risorto che ammantato di luce ha sconfitto le tenebre della morte. Come ricordano alcuni mistici medievali, con poetici versi.
E come ci mostra, ad esempio, la seicentesca Cena in Emmaus del Langetti, oggi esposta nel nuovo Museo San Fedele a Milano, con quella inaudita aragosta che assiste allo svelarsi di Gesù ai due discepoli.
Di Luca Frigerio per Avvenire
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