Kompong Cham (AsiaNews) – Riportiamo di seguito la lettera che in questi giorni, p. Luca Boleli ha inviato ai suoi amici nel mondo. P. Bolelli è un sacerdote del Pontificio Istituto Missioni Estere, in Cambogia da sette anni.
Carissimi Amici, un saluto fraterno dalla Cambogia. Il Natale è ormai alle porte, e io ne approfitto ancora una volta per salutarvi e ringraziarvi di cuore per la vostra amicizia e per tutto quanto state facendo per noi. Non potete immaginare quanto sia prezioso, spesso vi ricordiamo nei nostri discorsi e preghiere perché senza il vostro aiuto la nostra comunità non potrebbe portare avanti tante attività.
Grazie ancora.
Questa volta vorrei raccontarvi di Vuon. La prima volta che ho incontrato Vuon, mi trovavo in viaggio con alcuni cristiani della nostra comunità di Kdol Leu. Passando vicino alla missione di Kratiè, ci siamo fermati a salutare quel trionfo di tenerezza e bontà che è sr. Savier, anziana missionaria thailandese. Appena sceso dal pulmino vedo un giovanotto venirmi incontro, cammina a fatica a causa di una evidente storpiatura delle gambe, ma sfoggia un bellissimo sorriso a… 34 denti (mancandogli due incisivi). Mi chiama “lopok”, cioè “padre”, che è il titolo con cui sono chiamati i sacerdoti in Cambogia. Lo guardo meglio, ma non è un volto conosciuto. Si presenta, si chiama Vuon e sta andando a Ratanakiri, la sua provincia natale, per prendere le ceneri dei genitori e portarle in una pagoda di Kratiè. Parliamo un po’ e mi spiega che da alcuni mesi sta studiando al Centro per disabili dei Gesuiti vicino a Phnom Penh. Al momento di salutarlo e riprendere il viaggio, avendo saputo che è al verde, gli lascio qualcosa, ma non molto, perché mi faccio prendere dal dubbio che forse non sia tutto vero quello che mi ha detto. E lui, in cambio, mi dà una piccola colomba di legno che ha intagliato al Centro. Parto con l’idea di non rivederlo più. Ma nel pomeriggio sulla strada del ritorno, ritrovo Vuon da un benzinaio mentre sta ancora aspettando un mezzo di trasporto per andare a Ratanakiri. Quando mi vede mi abbraccia commosso. Quel gesto mi intenerisce, forse Vuon è più onesto di quello che pensavo.
Dopo alcuni mesi dovendo passare dal Centro dei Gesuiti, ne approfitto per chiedere di Vuon. Lo chiamano e quando mi vede è tutta una festa, mi presenta i suoi amici, mi fa vedere la casetta dove vive e mi spiega che ha iniziato il corso di agricoltura e allevamento. La stessa scena si ripete quando ritorno dopo un paio di mesi, stavolta però mi fa conoscere anche i suoi insegnanti e mi porta a visitare i porcili e i pollai. Mi viene allora un’idea: proprio in quelle settimane con il Consiglio Pastorale stiamo valutando la possibilità di iniziare un piccolo progetto di allevamento di polli e maiali; ne parlo con p. Indoon, giovane gesuita coreano responsabile del Centro, e sembra proprio che Vuon possa fare al caso nostro. All’occasione successiva faccio la proposta a Vuon. È felicissimo. Fra poco concluderà il corso e non gli sembra vero di avere già un lavoro. Il giorno in cui andiamo insieme a Kdol Leu, Vuon è tutto emozionato; durante il viaggio in macchina mi sommerge di idee per il nostro progetto.
Si mette subito al lavoro: porcile, pollaio, casetta per anatre e tacchini… non perde tempo. Ogni mattina, prima di iniziare le attività, partecipa anche alla Messa. Non è cristiano ma gli piace (…all’inizio aveva scambiato la chiesa per un ospedale, e non è l’unico!). Ascolta le letture, e anche la mia omelia (e qui forse è proprio l’unico!). Una mattina durante la colazione mi dice: “Stamattina finalmente ho capito. Dio Padre ha mandato Gesù suo Figlio per salvarci!”. Rimango sbalordito. Quella mattina a Messa erano venuti in due, lui e l’immancabile Jei Niang. All’omelia mi ero imposto di dire comunque un pensiero e, mezzo tramortito dal sonno, avevo sbiascicato appunto quel concetto, vergognandomi un po’ perché mi sembrava il più banale del mondo. E guarda invece che effetto aveva avuto su Vuon.
Erano anche i primi giorni della Quaresima, con la Via Crucis del Venerdì. Durante le varie stazioni, vedo Vuon stare dietro a tutti. Forse non capisce cosa stiamo facendo, penso. Arrivati verso metà Via Crucis, mi accorgo che Vuon è sempre indietro di una stazione, e si ferma a guardare fisso con gli occhi spalancati i quadretti con le immagini di Gesù che porta la croce. Rimango molto colpito e il giorno dopo gli chiedo come sia andata la Via Crucis. Mi dice: “Padre, Gesù ha sofferto proprio tanto. Lui sì che può capire le mie sofferenze…” e inizia a raccontarmi dei suoi genitori morti insieme su una mina antiuomo mentre andavano a fare legna nella foresta, quando lui aveva appena tre anni. Mi racconta di come, essendo figlio unico, sia stato affidato al capo tribù del suo gruppo etnico, una specie di stregone, e di come un giorno si sia infilato in una camionetta di militari per andare a Phnom Penh a cercare fortuna. Arrivato nella Capitale viene preso sotto la protezione di un uomo senza scrupoli che lo manda in giro a chiedere l’elemosina e poi, alla sera, gli porta via tutto il ricavato. Vuon riesce a muoversi solo a gattoni a causa di una poliomelite avuta qualche anno prima, è indifeso e in balia degli altri. Spesso per la fame è costretto a mangiare quello che trova per terra, come ad esempio i resti dei panini lasciati dai turisti. Molti suoi compagni di strada fanno uso di droghe, sniffano colla da scarpe, ma lui si oppone, e per questo viene picchiato e isolato. Alcuni di loro moriranno in quegli anni. Vuon resiste, e un giorno una signora lo vede per strada e ne sente compassione. Si tratta di una donna svizzera che lavora in Cambogia per progetti sociali, conosce alcuni chirurghi e propone a Vuon di tentare una operazione per farlo camminare. Vuon accetta e l’operazione riesce. Finalmente riprende a camminare sulle sue gambe seppure a fatica. Dopo alcuni mesi, dopo aver trovato lavoro in una piantagione di verdure, incontra per caso p. Gerald, missionario francese, che gli propone di studiare al Centro per disabili dei Gesuiti. Vuon accetta.
Ascolto Vuon commosso, altroché se ha capito il senso della Via Crucis!
Durante i suoi primi cinque-sei mesi con noi, Vuon è sempre raggiante, contento e orgoglioso del suo lavoro. Ma un giorno accade l’imprevisto: muore una delle due scrofe. Vuon mi telefona piangendo per darmi la notizia. Cerco di consolarlo, ma da quel momento qualcosa in lui cambia, non è più gioioso. Nei mesi successivi iniziano ad arrivarmi voci che, quando io non sono al villaggio, Vuon è spesso ubriaco. Rimango sorpreso e stento a crederci, finché un giorno le prove sono lampanti, ed è addirittura il nostro Vescovo ad esserne testimone. Si decide che Vuon non possa più rimanere con noi, la situazione è troppo compromessa. Viene allora accolto da una coppia del nostro villaggio che ha un progetto sociale in città. Ma anche lì, la stessa storia. Vuon è il primo ad esserne afflitto, si rende conto del problema ed è tentato di disperazione. C’è però una piccola luce ora a sostenerlo: ha con sé una immaginetta di Gesù, la guarda e si sente consolato. Purtroppo però deve andarsene anche da là, decide allora di tornare a Phnom Penh per cercare un nuovo lavoro. Continuiamo a sentirci per telefono ma dopo alcune settimane ne perdo le tracce. Finché un giorno mi chiama: “Padre, sono a Siam Reap, sto lavorando in un progetto agricolo dei Gesuiti!”. Sono contento per lui, e spero che stavolta vada tutto bene. Ma dopo un paio di mesi, mi richiama per dirmi che è passato ad un altro progetto agricolo gestito da un giovane cattolico filippino. Penso: “Ecco, ci risiamo…”. Rimango allora in attesa di una terza telefonata per sentirmi dire che ha cambiato ancora una volta lavoro. E invece non arriva. Mi chiama sì, ma per dirmi che sta bene, che lavora ed è contento. E poi un bel giorno per dirmi che… ha trovato moglie! Vuon e Mom si sposano secondo il rito semplice dei poveri, e presto arriva anche una bella bimba. Vivono in una capanna ma iniziano subito a mettere da parte i soldi per farsi una casetta. Il suo datore di lavoro mi conferma che Vuon si impegna a fondo, ha anche iniziato un cammino di catechesi con sua moglie, e non beve più da parecchio tempo.
In quel periodo Vuon mi telefona spesso, sento in sottofondo i vagiti della piccola, la voce della mamma. Vorrebbe venire a salutarci a Kdol Leu, perché sono più di due anni che non ci vediamo, ma è troppo lontano.
Poi, due settimane fa, ecco l’occasione: nei documenti ha ancora la residenza qui con noi e deve cambiarla. Ne approfitta per venire con la famiglia. Arrivano e… sorpresa: non sono in tre ma in quattro! Perché c’è anche un altro bimbo, il figlio avuto da Mom con un uomo che l’ha abbandonata al terzo mese di gravidanza. Parliamo a lungo. Vuon mi dice che ora, quando ha qualche soldo in tasca, non riesce più a spenderlo per sé, perché gli viene in mente la sua piccolina e quello di cui potrebbe avere bisogno. Mentre li ascolto, ripenso dove era Vuon solo qualche anno fa e provo tanta ammirazione per lui. Quando ci lasciamo, consegno loro un aiuto per completare la loro nuova casetta, gli spiego che non sono soldi miei ma dei tanti amici (voi!) che ci aiutano dall’Italia. Vuon con le lacrime agli occhi ringrazia Dio e promette di pregare ogni giorno per questi amici.
Quando penso a Vuon, penso ad una persona in cammino: avrebbe mille ragioni per fermarsi, prendersela con la vita, rivendicare tutto quello che non ha avuto, e invece va avanti, con il suo passo strascinato a causa della poliomelite e di altre ferite ben più profonde che solo Dio conosce. Penso a sua moglie Mom e a Somnang (in khmer significa “Fortunato”) suo primo figlio. E penso alla loro bimba, Maria. Hanno infatti voluta chiamarla così in onore della mamma di Gesù.
Ripenso allora anche alla Vergine Maria e al suo sposo di Giuseppe, che di sandali ne devono avere consumati tanti pure loro per le strade di Israele, in un cammino interiore ben più lungo e faticoso: quello della speranza e della fiducia. Cioè del constatare che la vita è in mani ben più grandi delle nostre e che io sono immerso in un progetto buono, in un infinito desiderio di bene che riesce a ricucire strappi troppo grandi e sanare ferite troppo profonde. C’è quindi da avere, come Maria e Giuseppe, e come… Vuon, sempre tanta, tanta, speranza.
È quello che vi auguro di cuore per questo Natale!
Fonte. AsiaNews
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Mi sembra illecito inserire un'immagine con tre appartenenti al Buddhismo Theravada in un articolo dove si parla di "cambogiano convertito". Qualche disattento potrebbe pensare che le due cose siano correlate, ma il buddhismo non viene nominato neanche una volta. Nell'articolo di AsiaNews compare tutt'altra foto.
Quando si è indecisi si deve optare per le panoramiche: vanno sempre bene!
Un saluto.