Il parroco, il francescano Hanna Jallouf, siriano, 62 anni, racconta: “Possiamo celebrare Messe e funzioni ma non possiamo uscire fuori dalla nostra chiesa. A Natale non possiamo abbellire l’esterno della chiesa, fare il presepe, allestire l’albero. Ma questo non ci impedirà di riunirci il 24 dicembre… In chiesa avremo un piccolo presepe, fatto solo di una piccola culla per deporre il Re della pace”
Ci sarà solo una piccola culla sotto l’altare della chiesa parrocchiale di san Giuseppe, nel villaggio di Knayeh, nella valle dell’Oronte, vicino al confine con la Turchia (Siria settentrionale), dove i frati minori della Custodia di Terra Santa sono presenti da oltre 125 anni. Da tempo sotto il controllo della fazione jihadista Jabhat al-Nusra, braccio siriano di al Qaeda, impegnato nella lotta al regime del presidente Assad, il villaggio, e i suoi dintorni, abitato da circa 800 fedeli, si appresta a vivere il Natale tra paura e speranza. Uno stato d’animo che il parroco, il francescano Hanna Jallouf, siriano, 62 anni, racconta con una certa emozione: “La guerra e la violenza hanno spinto molte persone, tra cui tanti nostri cristiani, a partire, a cercare rifugio altrove, anche per permettere ai propri figli di continuare a studiare. Nelle scuole del villaggio, ormai, si insegna solo il Corano”. Da quando la zona è in mano alle brigate islamiste vessazioni e soprusi ai danni della popolazione locale sono all’ordine del giorno. A farne le spese lo stesso parroco, sequestrato dai miliziani armati, lo scorso mese di ottobre, insieme ad altri parrocchiani, e dopo qualche giorno rilasciato. Nonostante la gravità della situazione la parrocchia è rimasta attiva anche se deve rinunciare a suonare le campane ed è tenuta a rispettare l’obbligo di coprire le statue e le immagini sacre esposte all’aperto. E il Natale imminente acuisce questa sofferenza senza impedire alla piccola comunità cristiana di vivere la nascita di Cristo. “Da giorni – rivela il parroco – i nostri fedeli hanno cominciato a pulire le case, a preparare qualche dolce, per quel che si può, e rendere dignitosa la festa”.
Libertà di culto. “Con tutte le difficoltà che abbiamo, manteniamo una certa libertà di culto – spiega padre Hanna – possiamo celebrare Messe e funzioni ma non possiamo uscire fuori dalla nostra chiesa. A Natale non possiamo abbellire l’esterno della chiesa, fare il presepe, allestire l’albero. Ma questo non ci impedirà di riunirci innanzitutto il 24 dicembre. La nostra Messa di mezzanotte la celebreremo il pomeriggio per motivi di sicurezza. Mancheranno le luminarie, ma non fa nulla. In chiesa avremo un piccolo presepe, fatto solo di una piccola culla per deporre il Re della pace”. Pace: una parola che sembra non avere alcun significato in un paese dilaniato da oltre tre anni di guerra, con centinaia di migliaia di morti e milioni tra sfollati e rifugiati. E il futuro non sembra portare nulla di buono. “La situazione è grave. Nel villaggio ci hanno portato via le nostre terre, le nostre case, abbiamo subito espropri. Io sono stato imprigionato – ricorda il parroco – insieme ad altre sedici persone del mio villaggio. Abbiamo passato un periodo davvero triste ma il Signore era con noi e abbiamo sentito la sua mano potente sul nostro capo e sui nostri villaggi. Dio è nostro Salvatore e protettore. Non sappiamo come andrà a finire e, per questo, viviamo alla giornata. Abbiamo paura del futuro ma la speranza è che il Signore ci protegge”. Sperare contro ogni speranza. Soprattutto quando si ha a che fare con “tanti ladri in giro”. “Non ci hanno lasciato nulla, hanno portato via tutto – spiega il francescano parlando dei miliziani islamisti – ora stanno cominciando a tagliare gli alberi per fare legna da ardere che rivendono al popolo a prezzi alti. Tagliano anche gli olivi che sono fonte di sostentamento per molti. Ci hanno preso il raccolto di olive, della terra, hanno rubato i nostri attrezzi, trattori, macchine, non hanno lasciato niente. Una cosa orribile”.
Fino alla morte. “Sopravviviamo perché vogliamo dire ai fondamentalisti che siamo cristiani e lo resteremo fino alla morte. I nostri avi sono nati e morti qui. Così faremo anche noi”, ribadisce padre Jallouf. “Con la popolazione locale non abbiamo problemi, viviamo in pace, ci rispettiamo e ci aiutiamo da sempre. Abbiamo paura di questi fondamentalisti venuti da fuori che non conoscono la nostra terra e la nostra tradizione di convivenza. Hanno provato a convertirci ma senza successo. Quando ero in prigione volevano che diventassimo musulmani. Abbiamo detto loro che siamo cristiani e che lo rimarremo fino all’ultima goccia di sangue. In quei giorni di detenzione abbiamo sentito la preghiera della nostra comunità e della chiesa intera. Nel villaggio le case dei cristiani erano diventate tante cappelle di adorazione eucaristica”.
Natale diventa, allora, un’ulteriore prova di testimonianza. “Alla comunità di Knayeh dirò che Cristo è la pace e solo da lui viene questo dono. Da Lui il coraggio e la forza per sostenere tanta sofferenze. Alla mia gente dirò, ancora una volta, di testimoniare pace, gioia e unità. Perché ne siamo certi: la Siria vedrà ancora il sole sorgere. La notte sta passando e una nuova alba è vicina”. Parole che assumono un valore particolare. Non una semplice speranza, ma un passaggio di testimone. Una staffetta di fede che corre sulla stessa strada percorsa, duemila anni fa, da san Paolo per andare da Gerusalemme a Antiochia e che dista solo poche centinaia di metri dalla parrocchia di padre Hanna. “In questa strada – conclude – l’apostolo dava forza ai fedeli per perseverare nella fede. Ed è quello che stiamo facendo. La tribolazione di oggi ci permette di dare al Natale il suo vero valore: testimoniare la fede in Cristo fino alla morte. Lo diciamo anche ai nostri fratelli in Occidente. È anche per loro che offriamo le nostre tribolazioni. Buon Natale!”.
Fonte. Agenzia SIR
Servizio di Daniele Rocchi