Il Papa ha aiutato ad avviare l’apertura tra il governo cubano e gli Stati Uniti. Come considera l’avvio di questo processo?
Papa Francesco ha dato un impulso al dialogo, è stato un mediatore. Ed ha valutato molto positivamente la visita del leader cubano. Castro è un uomo pragmatico, diretto, puntuale, mi ha detto. L’incontro segna un avanzamento, una pagina nuova. Non solo tra Cuba e gli Stati Uniti.
Che significato ha l’apertura delle relazioni tra Cuba e gli Stati Uniti per l’America latina?
Il cambio di relazioni tra Cuba e Stati Uniti ha un grande significato per le relazioni tra Stati Uniti e America latina. Vuol dire che si può aprire un dialogo e un’altra modalità di relazioni nel riconoscimento di rapporti paritari, sulla base dell’equità, non una grande potenza con un Paese piccolo. Vuol dire quindi che si può pensare ai Paesi dell’America latina non come dipendenti di un impero.
Altri Paesi dell’America latina necessitano di aiuto nella risoluzione di conflitti…
Penso al caso della Colombia con la guerriglia. L’esempio di Cuba e Stati Uniti può essere ripreso. Con la diplomazia si può favorire l’intendimento tra i popoli, senza interferire, senza ingerenze, si possono dare impulsi che generino questi processi. È necessario, quindi è possibile.
Come definisce il ruolo del Papa in questi processi?
Il Papa non è un mago, ma afferma e prova con la sua azione che l’avvicinamento, la cultura dell’incontro è una strada praticabile. Molte volte si è espresso riguardo alla ‘guerra a pezzi’. Anche nell’incontro ha parlato di fabbriche di guerra che debbono cambiare in fabbriche di pace. Il termine fabbrica ci dice qualcosa che dobbiamo fare, costruire. Posso dire che compie quest’opera con una frase che mi sembra giusta e che indica una prospettiva imitabile: disarmare le coscienze armate. È questo l’obiettivo preciso di papa Francesco.
Nel vostro colloquio avete parlato di situazioni di crisi, delle guerre in Africa…
Sì, tra le altre in particolare anche della crisi che si sta riaccendendo tra Ruanda e Congo. Destano molta preoccupazione i conflitti tra le etnie hutu e tutsi. In questo momento la situazione in certe aree dell’Africa è gravissima.
Spesso il Papa ha parlato delle guerre associandole al traffico di armi. Lei come considera questo?
Le guerre a pezzi sono il frutto del traffico d’armi e del traffico di droga. Sulla scena geopolitica questi due traffici non sono molto distinti. Sempre la guerra la guerra si associata al traffico di droga. Si finanzia la guerra con il traffico di droga, con il contrabbando. Noi questo in America latina lo sappiamo, è documentato. Quando ci fu la guerra in Centro America con il Nicaragua, la Cia, gli Stati Uniti finanziarono la guerra con la il traffico di droga. Questo è storia. Le guerre del Medio Oriente, in Iraq, in Afganistan, in Libia, si sono finanziate con la droga. E questo è tremendo. Il contrabbando è la causa delle guerre. Le potenze hanno poi la capacità di camuffare questo con motivi religiosi o con altre giustificazioni. Per le repressioni e le violenze, durante la dittatura in America latina, utilizzarono la giustificazione della lotta contro il comunismo e tutti quelli che si opponevano e denunciavo l’ingiustizia e la violenza della dittatura, venivano considerati comunisti e sovversivi. Ho consegnato a papa Francesco la lettera che un mese prima di morire mi aveva scritto monsignor Romero ‘per la cristiana solidarietà nella nobile causa comune della giustizia e della pace’.
Riguardo al periodo della dittatura in Argentina si attende l’apertura degli archivi. Lei ha parlato di questo con il Papa?
Mi ha riferito che la Santa Sede e la Conferenza episcopale argentina potranno fornire documentazione quando questa è ritenuta necessaria e richiesta nel corso di processi.
Di Stefania Falasca per Avvenire
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