Proseguono le meditazioni di padre Ermes Ronchi durante gli Esercizi Spirituali di Quaresima con il Papa e la Curia. Il desiderio di una Chiesa “lontana dai riflettori”, che svolga il suo compito di “sale e luce” nel mondo. “La gente chi dice che io sia?”. “Ma voi chi dite che io sia?”.
È soprattutto quel “ma” rivolto da Cristo ai suoi discepoli, durante quello che sembrava una sorta di “sondaggio d’opinione”, che deve interrogare il cuore di ogni cristiano. Due lettere, in cui però si racchiude una indicazione precisa: non accontentarsi di quello che dice la gente, né di una fede che “avanza per sentito dire”.
Inizia così la meditazione di padre Ermes Ronchi di stamattina, la quarta durante gli Esercizi Spirituali di Quaresima con il Papa e la Curia romana, incentrata sul Vangelo in cui Pietro fa la sua professione di fede. Un evento che avviene in un “luogo appartato” in cui il Maestro conduce i dodici, per vivere un momento di intimità “tra loro e tra loro e Dio”, in “silenzio, solitudine, preghiera”.
Lo stesso clima che si vive nella Casa ‘Divin Maestro’ di Ariccia, dove il predicatore servita scandisce gli Esercizi con le sue riflessioni orientate su “Le nude domande del Vangelo”. “Chi sono io per te?” è una di queste: una domanda da “innamorati”, osserva Ronchi, spiegando che “la risposta che Gesù cerca non sono parole”. “Lui cerca persone”, ma non vuole “indottrinare” nessuno. “Non c’è nessun Credo da comporre”, afferma il sacerdote, Gesù non cerca “definizioni ma coinvolgimenti: che cosa ti è successo, quando mi hai incontrato?”.
Ciò che interessa a Cristo è sapere se i suoi hanno aperto il cuore per comprendere che Egli è “il figlio di Dio Vivente”. “Il nostro cuore può essere la culla o la tomba di Dio”, sottolinea infatti padre Ermes. Ma “Gesù è il maestro del cuore, Gesù non dà lezioni, non suggerisce risposte, ti conduce con delicatezza a cercare dentro di te. E io vorrei poter rispondere: incontrare te è stato l’affare migliore della mia vita! Tu sei stato la cosa migliore che mi sia capitata”.
Il Figlio di Dio dà “un appuntamento” – prosegue padre Ronchi -: è “un uomo in croce”, “uno che è posto in alto” ma prima ancora, di giovedì, “è posto in basso” e “cinge un asciugamano e si china a lavare i piedi ai suoi”. Per questo San Paolo diceva che “il cristianesimo è scandalo e follia”. “Adesso capiamo chi è Gesù – sottolinea il predicatore – è bacio a chi lo tradisce. Non spezza nessuno, spezza se stesso. Non versa il sangue di nessuno, versa il suo sangue. Non sacrifica nessuno, sacrifica se stesso”.
Il problema è che, talvolta, “abbiamo predicato un volto deformato di Dio”: noi ecclesiastici “sembriamo tutti uguali” – dice il servita – stessi gesti, stesse parole, stessi vestiti. Laddove la gente vuole sapere solo “la tua esperienza di Dio”.
“Non siamo noi i mediatori tra Dio e l’umanità, il vero mediatore è Gesù”, chiosa padre Ronchi. Come Giovanni Battista, dobbiamo preparare la strada e poi “farci da parte”. “Pensate – aggiunge – la bellezza di una chiesa che non accende i riflettori su di sé ma su di un Altro. Ne abbiamo ancora di strada da fare! Diminuire… Gesù non dice ‘prenda la mia croce’, ma la sua, ciascuno la sua… Il sogno di Dio non è uno sterminato corteo di uomini donne e bambini ciascuno con la sua croce sulla spalla. Ma di gente incamminata verso una vita buona, lieta e creativa”.
Un concetto simile, il religioso lo aveva espresso nella meditazione di ieri pomeriggio, lunedì 7 marzo, seconda giornata di Esercizi. Il centro erano anche le parole di Cristo: “Voi siete il sale della terra”, “voi siete luce del mondo”. Due elementi umili, la luce e il sale, perché – spiega padre Ermes – “non attirano l’attenzione su di sé, non si mettono al centro, ma valorizzano ciò che incontrano”.
Così la Chiesa e i discepoli del Signore “non devono orientare l’attenzione su di sé, ma sul pane e sulla casa, sullo sterminato accampamento degli uomini, sulla loro fame così grande alle volte che per loro Dio non può avere che forma di un pane”.
Il sale, prosegue il predicatore, “fino a che rimane nel suo barattolo, chiuso in un cassetto della cucina non serve a niente. Il suo scopo è uscire e perdersi per rendere più buone le cose. Si dona e scompare. Chiesa che si dona, si scioglie, che accende, che vive per gli altri… Se mi chiudo nel mio io, anche se sono adorno di tutte le virtù più belle, e non partecipo all’esistenza degli altri, come il sale e la luce, se non sono sensibile e non mi dischiudo, posso essere privo di peccati eppure vivo in una situazione di peccato”.
Sale e luce, quindi, “non hanno lo scopo di perpetuare se stessi ma di effondersi”. E così è la chiesa: “non un fine, ma un mezzo per rendere più buona e più bella la vita delle persone”.
Può capitare però di dimenticare questo compito, di non illuminare né di dare più sapore. Di non servire a niente insomma. Succede, osserva padre Ronchi, ogni volta che siamo incapaci di comunicare amore, speranza e libertà a quanti ne hanno bisogno; quando ci “omologhiamo” al sistema senza andare controcorrente; quando “non cresciamo in umanità”.
In quei casi, “siamo sale che ha perduto il sapore se non siamo uomini risolti, se non ci siamo liberati da maschere e paure. Le persone vogliono cogliere dal discepolo di Gesù frammenti di vita, non frammenti di dottrina. Non se ci è stato posto Dio fra le mani ma che cosa ne abbiamo fatto di quel Dio”.
Ma c’è una consolazione: Cristo non dice “sforzatevi di diventare luce, di avere sapore”, ma “sappiate che lo siete già“. La luce è il “dono naturale di chi ha respirato Dio” e “avere un sapore di vita è il dono di chi ha abitato il Vangelo”, afferma il religioso.
E conclude raccontando al Papa e alla Curia una parabola ebraica: “Ogni uomo viene al mondo con una piccola fiammella sulla fronte, che non si vede se non con il cuore, e che è come una stella che gli cammina davanti. Quando due uomini si incontrano, le loro due stelle si fondono e si ravvivano – ognuna dà e prende energia dall’altra – come due ceppi di legno posti insieme nel focolare. L’incontro genera luce. Quando, invece, un uomo per molto tempo resta privo di incontri, solo, la stella che gli splendeva in fronte piano piano si affievolisce, fino a che si spegne. E l’uomo va, senza più una stella che gli cammini davanti”.
Questo significa che “la nostra luce vive di comunione, di incontri, di condivisione”. Pertanto, esorta padre Ronchi, “non preoccupiamoci di quanti riusciamo a illuminare. Non conta essere visibili o rilevanti, essere guardati o ignorati, ma essere custodi della luce, vivere accesi”. Conta , cioè, “custodire l’incandescenza del cuore”.
Redazione Papaboys (Fonte it.zenit.org)