Categorie: Finis Mundi

Il Papa in Cina? Sarebbe il benvenuto

Intervista a Paolo Xie Ting-zhe, vescovo cattolico di Urumqi (non riconosciuto dal governo): «Nella provincia del Xinjiang non esiste l’Associazione Patriottica. E siamo andati avanti bene»

«Ma certo, che siamo contenti se viene il Papa. Come potremmo non esserlo?» Non pone condizioni e non si nasconde dietro a cavillosi distinguo l’84enne Paolo Xie Ting-zhe, vescovo cattolico di Urumqi, quando gli chiedono del vescovo di Roma e della sua dichiarata propensione a recarsi in Cina «anche domani». La sua lunga vita, con le sue ferite e le sue consolazioni, è tutta un inno di fedeltà riconoscente alla Chiesa di Cristo e al Successore di Pietro. Per questo ha vissuto periodi di detenzione, e ancora oggi gli apparati cinesi non lo riconoscono come vescovo. E per questo le sue parole di successore degli Apostoli all’opera nello Xinjiang, la più occidentale e problematica delle province cinesi, suonano ipso facto mille volte più autorevoli e interessanti di quelle riversate anche sui media da tanti auto-eletti “collaudatori permanenti” della cattolicità della Chiesa che è in Cina. Anche quando trattano dei rapporti tra la Repubblica popolare cinese e il Vaticano.

Lei, vescovo Paolo Xie, sarebbe contento di incontrare il Papa?

«Certo. Ma non credo che sarebbe cosa facile. Comunque, io un Papa l’ho già incontrato».

E quando è successo?

«Era il 1994. Sono venuto a Roma e sono stato ricevuto da Giovanni Paolo II. Quando sono tornato a casa, ho distribuito le foto di quell’incontro a amici e parenti. I funzionari governativi di allora lo hanno saputo. Si sono un po’ arrabbiati. E mi hanno tolto il passaporto…»

Lei ha sempre rifiutato l’idea di una Chiesa cinese “indipendente”, separata dal Papa.

«Io appartenevo a una famiglia di neofiti, ed ero entrato al seminario di Lanzhou a 15 anni. Già da seminarista, nel ’58, mi avevano arrestato perché rifiutavo i discorsi di chi diceva che dovevamo creare una Chiesa indipendente e autogestita, separata dal Papa. Mi mandarono in un campo dove fabbricavamo scarpe, e poi mi trasferirono in una fattoria di lavoro a Urumqi. Mi hanno rilasciato nel 1980. C’era il momento dell’apertura, si riaprivano le chiese e i seminari, dopo gli anni della Rivoluzione Culturale. Mi hanno ordinato prete appena dopo la mia liberazione. Bisognava ricominciare, non c’era tempo da perdere».

E poi?

«Dopo essere stato ordinato sacerdote, ho preferito tornare a Urumqi, dove avevo vissuto vent’anni, conoscevo l’ambiente e potevo lavorare con più libertà. Ho parlato con i funzionari politici locali, ho spiegato loro che io ero fedele al Papa, che avrei rispettato le leggi civili e la loro autorità e quindi non c’era bisogno di creare anche qui l’Associazione patriottica dei cattolici. Quell’organismo usato per garantire il controllo della Chiesa dall’interno».

Le diedero retta?

«Sta di fatto che nella provincia del Xinjiang l’Associazione patriottica non c’è. E siamo andati avanti lo stesso, collaborando direttamente e senza intermediari con le autorità e i poteri locali. Anche per questo la Chiesa qui non è divisa. In altre province, le divisioni sono sorte proprio sulla scelta di accettare o meno i vincoli e le procedure legati all’azione degli organismi patriottici. Invece nello Xinjiang non c’è la “comunità cattolica clandestina” e la “comunità cattolica ufficiale”. Siamo tutti insieme, e rispettiamo tutti insieme le leggi. Le autorità politiche vedono che non abbiamo nulla da nascondere. Tutto quello che facciamo è vagliato e autorizzato dalle autorità civili. Dal punto di vista amministrativo e dell’uso delle risorse, ci atteniamo alle disposizioni del Comitato per le minoranze, che è un’istituzione del governo locale. Ci rivolgiamo a loro per avere tutti i permessi necessari per le nostre attività. E non ci sono grandi problemi».

Ma il governo riconosce il suo ruolo di vescovo?

«No. Sono stato ordinato vescovo il 25 novembre 1991 da tre vescovi cosiddetti “clandestini”, fuori dalle procedure predisposte dalla politica religiosa del governo. I funzionari locali mi riconoscono soltanto come sacerdote. E di fatto posso operare come vescovo senza problemi nella città di Urumqi, mentre fuori dalla capitale c’è un sacerdote che con il permesso del governo e con le dispense necessarie amministra i sacramenti e cura le questioni riservate al vescovo».

Come vive la Chiesa nello Xinjiang?

«Nella provincia ci sono 18 chiese e più di 10mila cattolici, e la metà è concentrata a Urumqi. Nel 1994 i sacerdoti erano 4, ora sono 26. Sono giovani che hanno studiato nei seminari finanziati dal governo, come quelli di Pechino e di Xian, e vengono qui a diffondere il vangelo, insegnare catechismo, celebrare sacramenti e aiutare i poveri e chi è in difficoltà, lasciando le città e le famiglie di provenienza. Le istituzioni locali, quando glieli presentiamo, regolarizzano la loro posizione, registrando anche il cambio di residenza. Tutto avviene nella collaborazione con i funzionari del governo. Affrontiamo tutte le questioni parlando direttamente con loro».

Ci sono nuovi battezzati che incontrano il cristianesimo da adulti?

«Ci sono 20-30 battesimi per adulti molte volte all’anno, celebrati durante le feste solenni. Nella società si respira un vuoto spirituale che adesso avanza in ogni città e in ogni ambiente, e molti accolgono l’annuncio di Gesù come un dono e una speranza per la loro vita».

Seguite la predicazione di Papa Francesco?

«La seguiamo tutti i giorni, con internet. Riprendiamo le sue meditazioni, molto adatte alla condizione della Chiesa in Cina. Lui ha detto anche che vuole venire in Cina. Si vede che ha la Cina nel cuore».

E se venisse, voi sareste contenti o avreste qualche timore di una strumentalizzazione della visita papale?

«Certo che saremmo contenti. Come potremmo non esserlo? Papa Francesco sarebbe l’ospite gradito e benvenuto per tutti. E se viene in Cina, credo che il governo mi riconoscerà anche come vescovo…»

C’è chi sconsiglia al Papa e alla Santa Sede di credere troppo nelle trattative con il governo comunista cinese, perchè rischiano di essere ingannati e di “cedere troppo”. Anche voi nutrite riserve?

«Assolutamente no. Qui nel Xinjiang non ci sono divisioni: noi cattolici siamo tutti uniti, e siamo tutti con il Papa. Quando sentiamo che dialoga con il governo cinese per trovare un accordo, non siamo preoccupati. Gli vogliamo bene, ci fidiamo di lui e seguiremo quello che ci dirà. Si deve dialogare e trattare con il governo. Lo facciamo anche noi qui a Urumqi!»

Uno dei nodi controversi riguarda il ruolo dell’Associazione patriottica. Secondo lei come può essere risolto?

«Si possono cambiare alcune cose, liberarsi da schemi vecchi che non hanno più niente a che fare con la realtà attuale. E magari anche il caso particolare dello Xinjiang può essere studiato per cercare e proporre soluzioni».

In che modo?

«Nello Xinjiang non c’è l’Associazione patriottica. E le cose sono andate avanti passando attraverso i rapporti diretti tra la Chiesa e gli organismi del governo. Basterebbe trasferire le funzioni dell’Associazione patriottica in un comitato del governo, riassorbendo il personale, e mettere da parte lo schema che lo concepisce come un organismo “interno” di direzione dei cattolici cinesi sul piano ecclesiale. Così forse le cose si sistemerebbero. E anche i posti di lavoro di funzionari e impiegati dell’Associazione patriottica sarebbero salvaguardati. Anche il Comitato dei cattolici cinesi, che si riunisce con scadenze pluriennali, potrebbe diventare un organismo dello Stato con il compito di garantire che le attività ecclesiali si svolgano nel rispetto pieno della legge».

L’altro nodo controverso è quello delle nomine dei vescovi. Come va affrontato?

«Tutti i vescovi devono essere in comunione con il Vescovo di Roma, perché questo è proprio della Chiesa cattolica. Quindi, la cosa più importante è trovare un modo per garantire che in futuro non ci siano più vescovi eletti senza la nomina o il consenso del Papa. Se il dialogo tra la Chiesa e il governo trova un modo per assicurare questo, il problema più grande sarà risolto».

Ci sono differenze nel trattamento di cristiani e dei musulmani uiguri che vivono nello Xinjiang?

«Le regole e gli organismi che le mettono in atto sono uguali per tutti. Ma forse preferiscono trattare con noi, che siamo più disposti alla collaborazione. Il governo teme anche che i musulmani uiguri dello Xinjiang siano contagiati dalle idee dei gruppi jihadisti».

Tra i sacerdoti cinesi è “saltata” la generazione di mezzo e lei, come vescovo, è circondato da preti molto più giovani. Come si trova con loro?

«Molto bene! Sono bravi, mi aiutano, mi seguono e sono loro che fanno tutto. Sono tutti miei “bracci destri”… (ride)».

Intervista di Gianni Valente per Vatican Isider (La Stampa)

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