«Mi piace pensare che sono formica e cicala: adoro il lavoro che faccio e mi piace cantare». Don Stefano Colombo, di “lavoro”, fa il prete. Ama cantare, da quando era piccolo, e scrive canzoni di fede: nel 2014 ha pubblicato Un po’ della mia fede, la sua quinta raccolta; nelle prossime settimane il suo canto Noi tutti a tavola uniti a te (ispirato ai temi proposti dalla Chiesa all’Expo) animerà la preghiera dei ragazzi degli oratori estivi lombardi. Spesso lo chiamano a proporre la sua musica nelle parrocchie, nei raduni dei giovani, agli incontri delle famiglie. Proprio come avrebbe voluto sant’Agostino, don Stefano prova a camminare nella fede cantando, «intonando le parole con la vita». Gli abbiamo chiesto di raccontare anche a noi come ci riesce.
Cantare aggiunge qualcosa al tuo annuncio di sacerdote?
«Dentro una canzone di fede c’è la corporeità di un pensiero, la forza coinvolgente dei sentimenti e delle emozioni. A volte bastano due parole e cinque note per comunicare l’infinito. Il primo canto che ho scritto si intitola
A proposito di sintesi, in una canzone lei parla del «Dio degli stracci». Che significa?
«Queste parole vengono da una splendida preghiera di Luigi Serenthà (rettore del seminario milanese negli anni del cardinale Martini, ndr): “Gesù ha costruito la sua vita di ogni giorno raccogliendo con cura meticolosa, con paziente amore, tutto quello che noi scartiamo: gli stracci delle nostre povertà, le piaghe del nostro dolore, i pesi che non sappiamo portare”. Proprio con questa canzone,
Pensa che questo Dio possa ancora affascinare le persone nel nostro mondo complicato?
«Anche noi credenti, come tanti, finiamo spesso per ispirarci a modelli che riteniamo vincenti. E magari, per vincere le nostre sfide, scateniamo un’aspra lotta contro tutti e anche contro noi stessi. Poi, però, facciamo fatica a piacerci. Vale per un adolescente e per una giovane mamma, per un anziano ma anche per un sacerdote. E allora non è affascinante che Dio invece provi un’immensa stima nei confronti di ciascuno di noi, esattamente come siamo, compreso ciò che scarteremmo?».
Le è mai successo di proporre un suo canto durante un’omelia?
«Di solito no, mi sembrerebbe una presunzione fuori luogo. Ma una domenica il Vangelo raccontava di Gesù che, dopo aver fatto terminare una tempesta sul lago, ha detto ai suoi apostoli di non temere. Nell’omelia volevo dire che l’invito di Gesù vale anche per le realtà minime della vita. Si può avere paura di fare una telefonata o timore a chiedere un abbraccio. E anche a far sentire una canzone. Allora ho preso la chitarra e ho cantato: “Se anche mi trovassi in balìa di una tempesta, vedendo il tuo sorriso io non avrò paura mai. Non c’è nessun abisso che ingoia la speranza di ritrovarti ancora”».
Qual è l’ultima volta che Dio l’ha lasciata stupito?
«Domenica scorsa abbiamo preparato nel nostro oratorio un incontro per tutte le suore della zona: è l’anno che la Chiesa dedica alla vita consacrata. Dopo aver cantato e pregato, c’era il rinfresco. Sono arrivati alcuni ragazzi che il giorno prima facevano gli stupidi, disturbando tutti quanti e prendendo in giro anche me. Allora mi sono avvicinato, quasi con rabbia, per rimproverarli: “Allora c’è qualcosa che piace anche a voi in oratorio!”. Uno di loro mi ha spiazzato: “Don, noi ci permettiamo certi comportamenti con te perché sappiamo che ci vuoi bene lo stesso”. Mi hanno stupito, attribuendomi – invece della rabbia – quella capacità di volere bene gratis che ritrovo in Dio».
La sua esperienza di uomo di Chiesa, insomma, confluisce nei canti che scrive. Come desidera e vede la comunità ecclesiale?
«Mi piace pensarla e viverla come un ambiente dove “il semplice è straordinario”. A volte è meraviglioso se qualcuno ti chiede come stai, se saluti chi incontri, se nella liturgia e nell’omelia dai alle persone un respiro di serenità e leggerezza».
Questo è Oro?
«Quest’ultima canzone è nata in una comunità di recupero di adolescenti a Perugia, dove siamo andati con un gruppo di famiglie. Stavamo insieme, lavoravamo nei campi o nella cascina, condividendo anche la liturgia e momenti di allegria dopo cena. Era tutto semplice ma straordinario, forse perché nasceva insieme a ragazzi che prima avevano una vita estremamente complicata. È davvero prezioso rendersi amabili. Non solo in Chiesa». Il tempo del nostro incontro sta finendo. Don Stefano, tra poco, deve celebrare un funerale. Prima di andare, mi mostra un’icona che sta dipingendo su un’asse di legno recuperata. Rappresenta Gesù che tende la mano a Pietro: «Siamo sempre sul punto di affogare, ma chi crede trova una mano forte che lo tiene nella vita autentica». Sulla porta della chiesa, dove ci salutiamo, c’è un’altra icona dipinta da don Stefano: «È Maria che tace e ascolta», mi spiega. La parrocchia è dedicata a Maria Assunta. Di fianco una scritta di don Luigi Verdi della Fraternità di Romena: «Solo insieme possiamo costruire la comunità che sogniamo. Qualcosa di semplice, dove possano riposare Dio e l’uomo».
di Giuseppe Gazzola per Credere
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