Sancta Sedes

Il problema numero uno (terza predica di Quaresima in Vaticano)

«Cosa c’è di più importante e attuale per il credente, e anzi per ogni uomo per ogni donna, che sapere se la vita ha un senso o no, se la morte è la fine di tutto o, al contrario, l’inizio della vera vita?». Nella terza predica di quaresima, tenuta venerdì mattina, 24 marzo, nella cappella Redemptoris Mater, alla presenza di Papa Francesco, padre Raniero Cantalamessa si è soffermato sul «problema umano numero uno»: la morte.

 

In linea con le meditazioni precedenti, il predicatore della Casa pontificia ha parlato del mistero della morte attraverso la chiave dello Spirito Santo, quello Spirito — si legge esplicitamente nella Lettera agli Ebrei (9, 14) — che diede a Gesù «l’impulso a offrirsi in sacrificio al Padre e la forza che lo sostenne durante la sua passione». Quello Spirito, ha aggiunto il frate cappuccino, dato al Cristo «al momento della nascita e poi, pubblicamente, nel battesimo», che viene donato successivamente agli uomini «sulla croce». Guidati dallo Spirito Santo, dunque, ci si può chiedere «cosa significa per noi la morte di Cristo» e soprattutto «che cosa essa ha cambiato a proposito della nostra morte».

Una riflessione che all’inizio non ha potuto fare a meno di richiamare come l’uomo, nel corso dei secoli, si sia confrontato con il problema della fine della vita. E come abbia cercato «consolazioni» alla ineludibilità di questo evento. Schiere di filosofi, in cerca di senso, hanno cercato di interpretare questo “appuntamento necessario”. Martin Heidegger, ad esempio, ha definito la vita e l’uomo «un-essere-per-la-morte» e così, ha spiegato il predicatore, ha fatto «della morte non un incidente che pone fine alla vita, ma la sostanza stessa della vita, ciò di cui essa è tessuta. Vivere è morire». Nella sua visione, quindi, «si nasce per morire, non per altro. Veniamo dal nulla e torniamo nel nulla. Il nulla è l’unica possibilità dell’uomo». È «il più radicale rovesciamento della visione cristiana, secondo cui l’uomo, invece, è un “essere per l’eternità”».

Di fronte a questa «dura necessità» si sono registrati numerosi e differenti atteggiamenti. Se nell’Antico testamento, ha notato padre Cantalamessa, si parla della morte «sempre in chiave di domanda più che di risposta», un filosofo come Epicuro ha cercato di bypassare l’ostacolo definendo la morte «un falso problema» («Quando ci sono io, non c’è ancora la morte; quando c’è la morte, non ci sono più io»). Nel tentativo di «esorcizzare» la morte, l’uomo si è appigliato anche a rimedi positivi, come quello di sopravvivere nei figli, o nella fama. Per il marxismo l’uomo sopravvive nella società del futuro, non come individuo ma come specie. E poi ancora, ha aggiunto il cappuccino, c’è chi si affida a «via di fuga illusorie» come la reincarnazione o le ipotesi di vita pressoché eterna suggerite dal movimento del transumanesimo e dalla sua fiducia nella tecnologia.

 




In realtà, ha detto padre Cantalamessa, «esiste un solo, vero rimedio alla morte e noi cristiani defraudiamo il mondo se non lo proclamiamo con la parola e la vita». Ecco allora il cuore di questa terza meditazione quaresimale: nella morte e nella risurrezione di Gesù «la morte è diventata un passaggio e un passaggio a ciò che non passa». C’è un cambio di prospettiva. Invece di guardare al peccato, e alla caducità dell’uomo, dobbiamo considerare cosa all’uomo porta Gesù: il suo amore. «Se Gesù soffre e muore di una morte violenta inflittagli per odio — ha rimarcato — non lo fa solo per pagare al posto degli uomini il loro insolvibile debito; muore crocifisso perché la sofferenza e la morte degli esseri umani siano abitate dall’amore». E ormai è «l’amore a dire l’ultima parola» sulla sofferenza e sulla morte dell’uomo.

Ma allora, si è chiesto il predicatore, «cosa dunque è cambiato, con Gesù, riguardo alla morte? Nulla e tutto. Nulla per la ragione, tutto per la fede. Non è cambiata la necessità di entrare nella tomba, ma viene data la possibilità di uscirne». Ogni credente, perciò, continua ad avere paura della morte perché «sa di doversi calare in quell’abisso oscuro», ma ha anche «speranza, perché sa di poterne uscire». Quello della morte, quindi, «non è un salto nel vuoto, ma un salto nell’eternità». Essa «è una nascita ed è un battesimo».

Perciò, ha suggerito padre Cantalamessa, invece di «meditare sulla nostra morte», è «più efficace meditare sulla passione e la morte di Gesù, dove si trova la ragione della nostra speranza». Da qui un «pio esercizio» utile a tutti in questo periodo quaresimale: «prendere in mano un vangelo e leggere per conto proprio, con calma e per intero, il racconto della passione. Basta meno di mezz’ora».




Fonte: www.osservatoreromano.it Edizione 24 – 25 marzo 2017

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