A Vatican News la testimonianza della superiora del monastero trappista “Nostra Signora Fonte della Pace” ad Azeir, in Siria. Dal 2005 nel Paese, la religiosa racconta le conseguenze del conflitto e le difficoltà di chi è rimasto ad avere fiducia nel futuro
(Fonte Vatican News – Maria Cecilia Mutual e Benedetta Capelli)
SIRIA – Un piccolo gruppo di suore dedite alla vita monastica e alla preghiera in un Paese sconvolto dalla guerra. Una presenza che è segno di una Chiesa “in uscita”, testimonianza della presenza di Dio anche tra le macerie siriane. E’ la storia delle monache trappiste di “Nostra Signora Fonte della Pace” di Azeir, tra le città di Tartum e Homs, vicino al confine con il Libano.
Ad accendere in loro il desiderio di andare, nel 2005, il tragico martirio dei monaci di Tibhirine, rapiti e uccisi nel 1996. Una morte violenta che bisognava sanare con la preghiera, raccogliendo l’eredità di “una vita in Cristo” in un Paese abitato da fratelli di diverse fedi. Quindi prima l’arrivo ad Aleppo e poi il trasferimento sulle colline siriane ad Azeir.
Sei suore che, in un nuovo contesto, riscoprono “la consacrazione e l’esperienza monastica viva, non solo come antica tradizione dei Padri, ma come qualcosa che oggi può dare senso, gusto, vita e bellezza a un’esistenza”. Così racconta suor Marta Fagnani, originaria di Como, benedettina di clausura, che si fa portavoce del dolore siriano.
“Il popolo il naturalmente soffre per le conseguenze di questa durissima guerra, andiamo verso il decimo anno di un conflitto molto duro che ha avuto fasi diverse – spiega la religiosa – direi che in questo momento pesa quasi di più la conseguenza di questa realtà precaria che si è creata per la distruzione delle strutture, la mancanza di lavoro, l’esodo di tanti siriani”. Suor Marta parla della “mancanza di medicine, di materie prime”, di tante zone in cui si “fa la fame”.
“Siamo stupite – racconta – della resilienza e della capacità di sopportazione” dei siriani ma anche della loro reazione e “della forza di vita” vista in questi anni. “Non so fino a quando questo durerà – spiega suor Marta – perché questo momento è quasi più duro rispetto agli anni del conflitto vero e proprio”.
Allora c’era la speranza che un giorno la guerra sarebbe finita, “ma la situazione di questi ultimi due anni è segnata proprio dalla mancanza di speranza”.
“E’ sempre più difficile per i nostri giovani sperare, in alcune zone ancora non si vede una possibilità reale di lavoro, di vita sicura e anche degna per la gente”. Suor Marta racconta della loro presenza, della vicinanza alla gente che si traduce non solo in preghiera ma anche nell’aiutare i ragazzi nello studio, nel pagare i mezzi per andare in università, le medicine dei malati.
“Abbiamo aiutato le persone – aggiunge – a comprare il gasolio, a sistemare le case danneggiate dalla guerra”, a sostenere alcuni operai che nel lavoro ritrovano la dignità. Infine il pensiero di suor Marta va alla fraternità che si vive tra cristiani e musulmani, “un qualcosa di quotidiano e naturale”.
“La Siria non è un Paese di grandi dibattiti teologici. Viviamo insieme in un rispetto che nasce soprattutto da un fatto: che tutti noi, cristiani, musulmani e altri, viviamo la vita davanti a Dio, sentiamo Dio presente nella vita. E questo ci permette di stare insieme, di vivere insieme, un vero atteggiamento di vita che riceviamo da Dio e a Dio torna”.
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