Categorie: Ethica et Oeconomia

Il ritorno dell’acciaio nel motore dell’Italia

COSA MUOVE IL GOVERNO – In un generale panorama di crisi, la risurrezione della siderurgia italiana assume una doppia valenza positiva. Si salvaguardano posti di lavoro e, soprattutto, interi tessuti sociali (per Taranto, Piombino e Terni queste chiusure sarebbero un dramma); ma soprattutto si rilancia un settore vitale per la nostra economia, che è la seconda manifatturiera d’Europa e tra le prime nel mondo.

La luce in fondo ad un tunnel… tutto d’acciaio. Perché è sulla siderurgia italiana che si comincia ad intravvedere l’alba di una nuova giornata, dopo una lunga notte che ha rischiato di travolgerla. Per ultime, le parole del presidente del Consiglio Matteo Renzi, che in un’intervista ha prospettato la possibilità che lo Stato intervenga direttamente per risolvere la crisi che sta divorando la più grande acciaieria italiana, l’Ilva di Taranto. Se da una parte lo Stato-imprenditore in Italia fa sempre paura (ha la tendenza a dissipare e fallire), dall’altra questo è un caso in cui o l’intervento finanziario è veramente robusto, o la crisi si avvita fino alle inevitabili conseguenze.
Ma la lampadina accesa a Taranto si aggiunge a quelle più luminose che scorgiamo a Piombino – dove l’impianto produttivo locale verrà rilevato dagli algerini della Cevital, con un investimento di 400 milioni di euro – e da Terni, dove si sta risolvendo una lunga crisi che ha fatto temere la chiusura della locale Ast, e il licenziamento di centinaia di addetti. La proprietà tedesca ci sta ripensando, anche perché i laminatoi umbri sono tra i migliori al mondo per produrre certi tipi di acciai.
Ecco: in un generale panorama di crisi, la risurrezione della siderurgia italiana assume una doppia valenza positiva. Si salvaguardano posti di lavoro e, soprattutto, interi tessuti sociali (per Taranto, Piombino e Terni queste chiusure sarebbero un dramma); ma soprattutto si rilancia un settore vitale per la nostra economia, che è la seconda manifatturiera d’Europa e tra le prime nel mondo.
L’acciaio si produce in tutto il globo; ma un conto è avercelo qui, vicino e in raccordo con le particolari esigenze produttive delle nostre aziende (si pensi a certi lamierini); un conto è doverlo importare dalla Cina o dall’India a prezzi alti, tempi incerti, in coda agli altri clienti.
E poi significa fabbriche che funzionano, occupazione, indotto (trasporto, stoccaggio, vendita). Significa dare un futuro alla nostra economia che non può essere solo pizza e fichi. Un grande Paese industriale non può prescindere dalla manifattura: speriamo lo si capisca, nel momento in cui Fiat si sta progressivamente ritirando dall’Italia.
Finora il governo Renzi è stato abilissimo a muoversi all’estero, per creare opportunità di business per le nostre aziende esportatrici. Contratti miliardari sono stati siglati in mezzo mondo, mediaticamente sovrastati dalle solite, contemporanee beghette politiche che nascondono la fornitura di un oleodotto o la realizzazione di un’autostrada. Ma l’esecutivo deve certamente fare di più per attrarre capitali stranieri non solo per acquistare l’esistente – e qui lo shopping è sfrenato, pure nello stesso acciaio – ma anche per investire ex novo. Possibile che a Termini Imerese non si riesca a far arrivare qualche produttore automobilistico giapponese o coreano?
E tornando a Taranto, pure qui gli stranieri stanno volteggiando attorno all’Ilva, in cordata con imprenditori italiani (la mantovana Marcegaglia da una parte, la cremonese Arvedi dall’altra). Ma ci sono debiti pregressi da saldare, una colossale bonifica da realizzare, la fornitura di materia prima da continuare, i forni da riaccendere, provvedimenti giudiziari di tutti i tipi… Nessuno in giro per il mondo se la sente di prendere in mano una simile patata bollente; ecco perché, a questo punto, lo Stato deve fare la sua parte.
Renzi non ha detto: nazionalizzeremo. Ha piuttosto delineato un possibile intervento nel rispetto delle normative comunitarie, che non prevedono aiuti di Stato alle aziende. Come? Ci sono vari modi per “bonificare” il disastro-Ilva per poi offrirla ad investimenti privati. Il migliore sarebbe quello di accollarsi i costi (1,8 miliardi) della bonifica ambientale, cosa su cui i puntuti commissari europei avrebbero poco da ridire. Ma nel frattempo vanno almeno parzialmente pagati i 400 fornitori dell’acciaieria; va garantita la continuità aziendale; va cercato un management che sappia fare acciaio e venderlo e non solo trattare con la politica e la magistratura. Andrebbe infine cercato un modo affinché lo Stato rientri, poi, dalle spese sostenute, come Obama ha sapientemente fatto a Detroit e a Wall Street.
Una sfida enorme, ma ci stiamo giocando una città, mezza Puglia e una fetta rilevante del futuro della nostra economia. Non far finta di niente è già una buona cosa. di Nicola Salvagnin per Agensir

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