È stato un monaco cristiano italiano, fondatore dell’ordine dei Benedettini. Viene venerato da tutte le Chiese cristiane che riconoscono il culto dei santi.
San Benedetto nasce intorno intorno all’anno 480 a Norcia. I suoi genitori benestanti lo mandarono per la sua formazione negli studi a Roma o forse si trasferì con tutta la sua famiglia nella Città Eterna.
Ma il giovane Benedetto era disgustato dallo stile di vita di molti suoi compagni di studi e dalla mondanità delle vie di Roma. Voleva piacere a Dio solo; “soli Deo placere desiderans” (II Dial., Prol 1). Così, ancora prima della conclusione dei suoi studi, Benedetto lasciò Roma e si ritirò nei monti ad est di Roma.
Si fermò per un periodo nel municipio di Effide (oggi: Affile), paese di origine della sua nutrice Cirilla, sua compagna in questo viaggio. Un villaggio immerso fra la natura e le alte colline coltivate a vigneti, un luogo sicuramente più consono per incontrare Dio nel proprio intimo.
Proprio ad Affile, secondo quanto riportato dai Dialoghi di San Gregorio Magno ha compiuto il suo primo miracolo nel 494 d.C. Questo miracoloso avvenimento fece sì che tutti gli abitanti del luogo implorassero di richieste di miracoli il giovane Benedetto, che non ebbe più un attimo per vivere in solitudine la sua preghiera.
Affile quindi non è più un luogo buono per la sua ricerca di Dio, così si spostò poco distante fra i monti di Subiaco.
A Subiaco incontrò Romano, monaco di un vicino monastero retto da un abate di nome Adeodato , che, vestitolo degli abiti monastici, gli indicò una grotta impervia del Monte Taleo (attualmente contenuta all’interno del Monastero del Sacro Speco), dove Benedetto visse da eremita per circa tre anni, fino alla Pasqua dell’anno 500.
Conclusa l’esperienza eremitica, accettò di fare da guida ad altri monaci in un ritiro cenobitico presso Vicovaro, ma, dopo che alcuni monaci tentarono di ucciderlo con una coppa di vino avvelenato, tornò a Subiaco. Qui rimase per quasi trent’anni, predicando la “Parola del Signore” e accogliendo discepoli sempre più numerosi, fino a creare una vasta comunità di tredici monasteri, ognuno con dodici monaci e un proprio abate, tutti sotto la sua guida spirituale. Negli anni tra il 525 ed il 529, a seguito di un altro tentativo di avvelenamento con un pane avvelenato (preso al volo da un corvo che gli salvò la vita, divenendo il suo simbolo), Benedetto decise di abbandonare Subiaco per salvare i propri monaci.
Nell’anno 529 Benedetto lasciò Subiaco per stabilirsi a Montecassino. Alcuni hanno spiegato questo trasferimento come una fuga davanti ai numerosi intrighi contro di esso ma questo tentativo di spiegazione, per alcuni, si è rivelato poco convincente, giacché la morte improvvisa di chi voleva avvelenarlo, non indusse Benedetto a ritornare (II Dial. 8).
In realtà, questa decisione gli si impose perché era entrato in una nuova fase della sua maturazione interiore e della sua esperienza monastica.
Secondo Gregorio Magno, l’esodo dalla remota valle dell’Aniene verso il Monte Cassio (Montecassino) – un’altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da lontano – riveste un carattere simbolico.
La vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d’essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita.
A Montecassino Benedetto visse fino alla morte, ricevendo l’omaggio del popolo in pellegrinaggio e dei sovrani dell’epoca, fra i quali anche Totila re dei Goti, che il santo monaco severamente ammonì.
Qui Benedetto si spense intorno al 547 (secondo altre fonti la data sarebbe il 21 marzo 543), poco dopo sua sorella Scolastica, con la quale ebbe una comune sepoltura.
La tradizione vuole che spirò in piedi sostenuto dai suoi discepoli, dopo aver ricevuto la Comunione e con le braccia sollevate in preghiera, mentre li benediceva e li incoraggiava.
Nell’intero secondo libro dei Dialoghi di San Gregorio Magno ci illustra come la vita di San Benedetto fosse immersa in un’atmosfera di preghiera, fondamento portante della sua esistenza. Senza preghiera non c’è esperienza di Dio. Ma la spiritualità di Benedetto non era un’interiorità fuori dalla realtà.
Nell’inquietudine e nella confusione del suo tempo, egli viveva sotto lo sguardo di Dio e proprio così non perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’uomo con i suoi bisogni concreti. Vedendo Dio capì la realtà dell’uomo e la sua missione.
Nel monastero di Montecassino Benedetto compose la sua Regola verso il 540; prese sicuramente spunto dalla tradizione monastica precedente di alcuni Padri del deserto, comeCassiano, Basilio, Agostino. Egli combinò l’insistenza sulla buona disciplina con il rispetto per la personalità umana e le capacità individuali, nell’intenzione di fondare una scuola del servizio del Signore, in cui sperare di non ordinare nulla di duro e di rigoroso.
La Regola, umana e saggia sintesi del Vangelo, nella quale si organizza nei minimi particolari la vita dei monaci all’interno di una “corale” celebrazione dell’Opus Dei, cioè della liturgia quotidiana, diede nuova ed autorevole sistemazione alla complessa, ma spesso vaga e imprecisa, precettistica monastica precedente.
I due cardini della vita comunitaria sono il concetto di stabilitas loci (l’obbligo di risiedere per tutta la vita nello stesso monastero contro il vagabondaggio allora piuttosto diffuso di monaci più o meno “sospetti”) e la conversatio, cioè la buona condotta morale, la carità reciproca e l’obbedienza all’abate, il “padre amoroso” (il nome deriva proprio dal siriaco abba, “padre”) mai chiamato superiore, e cardine di una famiglia ben ordinata che scandisce il tempo nelle varie occupazioni della giornata durante la quale la preghiera e il lavoro si alternano nel segno del motto ora et labora (“prega e lavora”), con il sostegno della lectio divina, cioè la meditazione della Parola di Dio.
All’obbedienza del discepolo deve corrispondere la saggezza dell’Abate, che nel monastero tiene “le veci di Cristo” (2,2; 63,13). La sua figura, delineata soprattutto nel secondo capitolo della Regola, con un profilo di spirituale bellezza e di esigente impegno, può essere considerata come un autoritratto di Benedetto, poiché – come scrive Gregorio Magno – “il Santo non poté in alcun modo insegnare diversamente da come visse” (Dial. II, 36).
L’Abate deve essere insieme un tenero padre e anche un severo maestro (2,24), un vero educatore. Inflessibile contro i vizi, è però chiamato soprattutto ad imitare la tenerezza del Buon Pastore (27,8), ad “aiutare piuttosto che a dominare” (64,8), ad “accentuare più con i fatti che con le parole tutto ciò che è buono e santo” e ad “illustrare i divini comandamenti col suo esempio” (2,12).
Per essere in grado di decidere responsabilmente, anche l’Abate deve essere uno che ascolta “il consiglio dei fratelli” (3,2), perché “spesso Dio rivela al più giovane la soluzione migliore” (3,3). Questa disposizione rende sorprendentemente moderna una Regola scritta quasi quindici secoli fa! Un uomo di responsabilità pubblica, e anche in piccoli ambiti, deve sempre essere anche un uomo che sa ascoltare e sa imparare da quanto ascolta.
Benedetto qualifica la Regola come “minima, tracciata solo per l’inizio” (73,8); in realtà però essa offre indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che cercano una guida nel loro cammino verso Dio. Per la sua misura, la sua umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante fino ad oggi.
Paolo VI lo ha proclamato, il 24 ottobre 1964, Patrono d’Europa, riconoscendo l’opera meravigliosa svolta dal Santo mediante la Regola per la formazione della civiltà e della cultura europea.
Inoltre è patrono dei Monaci, Speleologi, Architetti, Ingegneri e di numerose città (tra cui Cassino, Norcia e Subiaco)
(Fonte testo: Papa Benedetto XVI, Cathopedia, Wikipedia, Abbazia di Farfa)
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