Beata Maria Elisabetta Renzi è stata una religiosa e fondatrice italiana della Congregazione delle Maestre Pie dell’Addolorata nel 1839.
Nasce il 19 novembre 1786 a Saludecio di Romagna, era la secondogenita di sette figli di Giambattista Renzi e Vittoria Boni, entrambi provenienti da famiglie agiate.
Viene battezzata il giorno seguente coi nomi di Maria Elisabetta e ricevette in famiglia dai genitori una solida educazione cristiana. Il padre svolgeva un ruolo importante nella Compagnia del Gonfalone e nella congregazione del Santissimo Sacramento, occupandosi soprattutto del settore caritativo-assistenziale.
Nel 1791 la famiglia si trasferisce a Mondaino (RN). Secondo l’usanza del tempo la fanciulla fu affidata alle monache Clarisse perché riceva un’adeguata formazione umana e cristiana.
Nel 1807 all’età di 21 anni, desiderosa di donarsi completamente a Dio e ai fratelli, chiese di poter fare esperienza nel monastero agostiniano di Pietrarubbia, nella Contea di Carpegna (PU).
Esso godeva grande fama per la profonda spiritualità delle Monache Agostiniane: era poverissimo, situato su terreno franoso di un dirupo, per cui, a dire del Vescovo del Montefeltro, ci voleva una speciale vocazione per la totale solitudine che ivi regnava e per i disagi causati dalle abbondanti nevi e dall’intenso freddo.
Elisabetta avvertì subito tutta la forza di una intensa vita di consacrazione al Signore, come appare dalla lettera da lei scritta al padre, in cui manifesta la decisa volontà di darsi unicamente alla gloria di Dio, nella casa di Dio:
«Date lode al Signore perché Egli è buono: eterna è la sua misericordia. All’infuori di Dio, non v’è cosa solida, nessuna, nessuna al mondo! Se è la vita, passa; se è la ricchezza sfugge; se è la salute, perdesi, se è la reputazione, la ci viene intaccata; ah, tutte le cose se ne vanno, precipitano. O babbo, mi permetta che io attenda qui il premio di opere buone, di buoni pensieri, di desideri buoni, imperocché Dio, che solo è buono, anche dei buoni desideri tien conto. Dio mi fa tante offerte! Vuole dunque che non mi curi tosto della Sua amicizia, che non faccia tosto gran caso delle Sue promesse? Babbo veneratissimo, glielo dico: ho un vivo desiderio di far del bene, di pregare tanto per la gloria di Dio, anzi per la maggior gloria di Dio… nella casa di Dio ».
Nel Monastero agostiniano di Pietrarubbia passò momenti felicissimi in unione col Signore onde portarlo a chi non lo conosceva come scrisse all’Abadessa del Monastero delle Clarisse di Mondaino:
«Immagini di vedere la meschina e fortunata Elisabetta in una cellina che le è tanto cara e che è il suo santuario, fatto solo per Gesù e per me, e indovinerà facilmente le ore felici che passo col mio Diletto Come sarebbero vuote le nostre celle ed i chiostri se non li riempisse Lui! Ma noi Lo vediamo attraverso tutto, perché Lo portiamo in noi e la nostra vita è un paradiso anticipato. La cella è qualcosa di sacro! Rievoco, madre Badessa, la sua giusta espressione; è un intimo santuario destinato a Lui e alla sua sposa; e vi stiamo così bene tutti e due! Vorrei che tutto il mio essere tacesse e in me tutto adorasse, e così penetrare ognor più in Lui ed esserne così piena da poterlo dare a quelle povere anime che non conoscono il dono di Dio! Che io me ne stia sempre sotto la grande visione di Dio».
Fra queste mura il Signore la preparò a quella missione apostolica a cui l’avrebbe chiamata.
Nel 1810 il Monastero fu soppresso per decreto napoleonico ed Elisabetta, dopo esperienze tanto felici, dovette abbandonare il monastero e riprendere la vita in famiglia; questo passo ha segnato un momento doloroso per lei, ma la forgerà maggiormente per le prove che dovranno venire.
Intanto, fatti nuovi concorsero a renderle più faticoso questo periodo di dolorosa attesa: nel 1813, l’unica sorella, Dorotea, mori all’età di vent’anni.
Abbandonò il primitivo fervore, ma continuò a chiedere al Signore nella preghiera il suo progetto: “Signore, quale progetto hai su di me ?”.
Un giorno, mentre stava cavalcando assieme ad una domestica venne sbalzata via dal cavallo imbizzarrito. Si rialzò incolume ed interpretò questa caduta come il segno di una chiamata da parte di Dio, ma non sapeva bene dove dirigere i suoi passi.
Si consigliò con il suo direttore Spirituale don Vitale Corbucci che la rassicurò dicendole che la sua missione era quella di educatrice e le indicò Coriano.
La giovane nell’aprile 1824 si presentò al “Conservatorio” di Coriano, una scuola per ragazze povere messa in piedi da un amico del Corbucci, don Giacomo Gabellini, e diretta da suor Agnese Fattiboni, una religiosa espulsa dal soppresso convento forlivese di Santa Chiara. Inseritasi subito con geniale attivismo in quella comunità, dopo qualche tempo Elisabetta suggerì un’ idea per assicurare un solido futuro all’istituzione: confluire nelle Figlie della Carità fondate da santa Maddalena di Canossa, la quale cercava di aprire una sua casa nello Stato Pontificio. Dopo una prima risposta positiva giunta da Verona, il progetto andò in fumo anche per delle calunnie diffuse ad arte nella zona contro don Gabellini e suor Agnese: questa tornò in convento, mentre il sacerdote si ritirò in Toscana, mantenendo però la proprietà del Conservatorio, mentre la Canossa, tuttora incerta sulla fusione, affidò la direzione della scuola a Elisabetta.
Questa puntò decisamente a organizzarvi anche una intensa vita spirituale, dando al gruppetto delle sue collaboratrici il nome di “Povere del Crocifisso ritirate in Coriano” e stendendo per la piccola comunità un regolamento. Il riferimento al Crocifisso si spiega con la diffusione di questa devozione in Emilia Romagna e soprattutto a Coriano, dove si venera uno stupendo crocifisso ligneo, probabilmente di origine bizantina, che fu trovato in mare nel 1200 e che ogni anno è portato in processione con grande concorso di popolo. La scuola, sotto la guida della Renzi, si affollò ben presto di allieve e da Sogliano, altro centro riminese, chiesero a lei di istituirne un’altra.
Il vescovo intanto, nel 1830 approvò il regolamento, ma per la vestizione delle “Povere del Crocifisso” (undici in tutto) si dovette attendere perché questo vescovo dal carattere un po’ lunatico (Pio IX ne aveva addirittura sconsigliato la nomina) cambiava spesso idea mettendo a dura prova la pazienza della fondatrice.
Finalmente, la vestizione si fece il 29 agosto 1839, cinque giorni dopo che il vescovo aveva eretto l’istituto delle Maestre Pie dell’Addolorata (il nuovo nome si spiega con una particolare devozione della Beata verso la Madonna dei dolori, che era venerata nella chiesa annessa alla scuola). L’istituto si proponeva di venire incontro soprattutto alle esigenze educative delle ragazze dei piccoli centri di campagna, ignorate dalle istituzioni statali.
Il regolamento conteneva riferimenti alle regole di Sant’Agostino (ricordo del monastero di Pietrarubbia), delle Maestre Pie Venerini e delle Canossiane, ma armonizzati dall’intento di realizzare nella comunità una vita religiosa fatta di lavoro, di preghiera nella pace domestica e nella carità fraterna.
Alcune caratteristiche di fondo costituiscono l’essenza del carisma dell’istituto.
Ad esempio, «insegnare la dottrina cristiana un’ora al giorno… non vietare mai l’ ingresso a quelle che devono essere istruite, anche se adulte… senza distinzione di età e di condizione sociale… accogliere tutti con dolcezza, mansuetudine e carità».
Anche dagli appunti che Elisabetta ci ha lasciato emergono i tratti salienti di una spiritualità che conquistava soprattutto per l’esempio che ne dava lei.
Si tratta di pensieri espressi in forma personalissima e originale: «Io porto Colui che mi porta», diceva ad esempio quando aveva fatto la Comunione: «Quando un’ anima ha degnamente ricevuto il sacramento dell’ Eucaristia, nuota nell’amore; essa è umile, dolce, mortificata, caritatevole e modesta, con tutti concorde; è un’ anima capace dei maggiori sacrifici… non è più quella di prima… Il Signore è con te dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina. Tu soffri? È una divina mano che ti dà la sua croce; quando lavori, Egli è lì per risparmiarti metà di pena; quando piangi, Egli ti si avvicina per asciugarti le lacrime; quando preghi, è Lui che prega con te». E aggiungeva un’ esportazione che è diventata uno slogan per le Maestre Pie dell’ Addolorata: «Allegra, perché sai che il buon Dio ti ama!».
Le Maestre Pie dell’Addolorata sono dedite principalmente all’istruzione ed all’educazione dell’infanzia e della gioventù, anche in terra di missione.
Oggi, oltre che in Italia, sono presenti nelle Americhe (Brasile, Messico, Stati Uniti d’America), in Bangladesh e in Zimbabwe; la sede generalizia è in viale Vaticano a Roma. Al 31 dicembre 2008 la congregazione contava 300 religiose in 51 case.
Intanto l’Istituto apriva nuove case; l’ultima, vivente la Renzi, fu quella di Mondaino, che cominciò la scuola nella primavera del 1856. La salute della fondatrice andava peggiorando sempre più a causa di una grave forma di laringite tubercolare; lei stessa se ne rendeva conto, guardando alla prossima fine con grande serenità e in continua preghiera: «Com’è bello l’ angelo della morte» disse il 29 luglio 1859, «è quello che ci porta in cielo!».
Il 14 agosto ricevette per l’ultima volta la comunione, esortò le consorelle ad essere fedeli alla vocazione e verso le otto del mattino sussurrò: «Io vedo!… io vedo… io vedo!» e spirò.
Giovanni Paolo II l’ ha beatificata il 18 giugno 1989.
Ti benedico, Signore Gesù Cristo, che hai voluto scegliere
la Beata Elisabetta Renzi per manifestare al mondo
la gioia di conoscerti, amarti e seguirti.
Infondi, Ti prego nel mio cuore il suo grande amore
verso i fratelli e l’ardente sua brama di annunziare
dovunque il Vangelo della salvezza,
affinché tutti possano conoscere amare e seguire Te,
via verità e vita.
Per sua intercessione concedimi anche, se è tua volontà,
la grazia particolare che umilmente ti chiedo.
Amen
(3 Gloria alla Santissima Trinità)
Per informazioni e comunicazioni: Istituto Maestre Pie dell’Addolorata (curiampda@ols.org)
Autore: Sr Sabrina, Maestra Pia dell’Addolorata/Famiglia Cristiana
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