A Torino, sant’Ignazio da Santhià (Lorenzo Maurizio) Belvisotti, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, assiduo nell’ascolto dei penitenti e nell’assistenza ai malati.
(Fonte vatican.va/Cristina Siccardi)
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Lorenzo Maurizio Belvisotti nasce a Santhià (Vercelli) il 5 Giugno 1686; di famiglia benestante, rimane orfano di padre all’età di 8 anni.
Da più grande si trasferì a Vercelli per gli studi filosofici e teologici, ispirato dalla vocazione per la vita ecclesiastica.
Frequenta il seminario e prende i voti con il benestare di madre e fratelli.
Viene ordinato sacerdote nell’autunno del 1710 e resta a Vercelli come cappellano-istruttore della nobile famiglia Avogadro. In questi primi anni di sacerdozio si associa anche all’apostolato dei Gesuiti, particolarmente nella predicazione delle missioni al popolo. Conoscerà così il suo futuro direttore spirituale, il padre gesuita Cacciamala.
La città di Santhià, desiderando avere il suo concittadino, lo elegge canonico rettore dell’insigne collegiata. A loro volta gli Avogadro lo eleggono parroco della parrocchia di Casanova Elvo di cui godono il giuspatronato. Tuttavia il quasi trentenne don Belvisotti non va in cerca di gloria: ha maturato ben altre mete.
Rinunciando alle due nomine e ai benefici connessi, il 24 maggio 1716 entra nel convento-noviziato dei Cappuccini di Chieri (Torino) e assume il nome di fra Ignazio da Santhià, con l’intenzione di partire in futuro per le missioni estere.
La sua fermezza nel tendere alla perfezione, l’osservanza piena, premurosa, spontanea e gioiosa della vita cappuccina gli attirano l’ammirazione anche dei più anziani religiosi del noviziato.
Dopo gli anni della formazione cappuccina (trascorsi a Saluzzo, a Chieri e a Torino, al Monte dei Cappuccini), nel Capitolo Provinciale del 31 agosto 1731 viene nominato maestro di noviziato nel convento di Mondovì (Cuneo). Rimane tredici anni in tale ufficio, e attraverso l’insegnamento e specialmente la testimonianza, Ignazio offre alla Provincia monastica del Piemonte ben 121 nuovi frati, alcuni dei quali moriranno in fama di santità.
Venuto a conoscenza delle sofferenze del padre Bernardino Ignazio dalla Vezza, suo ex-novizio, missionario in Congo, e del rischio che interrompesse la sua attività missionaria, Ignazio si prostrò dinanzi a Gesù Sacramentato e con semplicità depose l’offerta, dettata dalla sua altissima carità: “Signore mio Gesù Cristo, se a voi piace che il male di questo buon operaio passi a me, che sono buono a nulla, fatelo. Io l’accetto volentieri per la vostra gloria”. Il missionario poteva riprendere le sue fatiche apostoliche, poiché il male era scomparso mentre per Ignazio iniziavano le sofferenze che lo costrinsero a rinunciare all’incarico.
L’obbedienza ai superiori (alla quale mai si sottrasse), lo inducono a seguire, come cappellano capo, l’esercito del re di Sardegna Carlo Emanuele III, in guerra contro le armate franco-spagnole (1745-1746), per assistere i militari feriti o contagiati negli ospedali di Asti, Alessandria e Vinovo.
Ammalati gravi, feriti gravissimi, corpi straziati… riempivano le corsie. In quel mondo di dolori padre Ignazio era l’angelo consolatore. “Correva di corsia in corsia, di letto in letto spinto dall’amore continuamente attento, applicato e indefesso nell’assistenza dei soldati infermi”, si legge in un documento storico scritto da un testimone.
Finita la guerra, il Convento del Monte dei Cappuccini di Torino lo accoglie nuovamente per l’ultimo periodo della sua vita (1747-1770). Con generosità senza misura e con umile e intensa carità spirituale, Ignazio divide la sua attività pastorale tra il convento e la città di Torino e, nonostante la non più giovane età e le gravi malattie, scende la collina su cui sorge il convento per percorrere le vie della città e incontrare di casa in casa poveri e ammalati, che attendono il conforto della sua parola e della sua invocata benedizione.
Amava il silenzio, il raccoglimento, le veglie prolungate ai piedi del Tabernacolo, ma seppe pure rimboccarsi le maniche e mettersi al servizio degli infermi e dei poveri della comunità. “Il bel Paradiso, soleva ripetere, non è fatto per i poltroni. Lavoriamo dunque!”.
Intanto si andavano moltiplicando i prodigi e il popolo lo battezzava “il santo del Monte”; contemporaneamente su di lui si accentrava anche la venerazione dei più distinti personaggi del Piemonte: dai regnanti all’Arcivescovo di Torino, Giovanni Battista Roero, al primo Vescovo di corte, il Cardinale Vittorio Delle Lanze; dal gran cancelliere Carlo Luigi Caisotti di Santa Vittoria, al sindaco della città.
“Imparate da me che sono mite e umile di cuore…”. Sono parole di Gesù, e come tutti i santi, anche padre Ignazio si dava pensiero perché non fossero cadute invano dalla bocca del Salvatore. L’umiltà l’ebbe radicata nel cuore e viva nel suo modo di agire e di parlare. Sapeva che l’umiltà è autentica e sincera conoscenza di Dio e di se stesso, e per questo non tralasciava occasione per studiare, per ammirare la bontà e la grandezza di Dio e per approfondire la comprensione della propria pochezza. Fino alla più avanzata età, cioè fino a qualche anno prima della morte, fece i lavori più umili quotidiani della vita di convento.
Trascorse gli ultimi due anni nell’infermeria del suo convento, continuando a benedire, a confessare, a consigliare quanti accorrevano a lui. Il suo ardente desiderio di Dio, alimentato dalla contemplazione del Crocifisso e dalla lettura del Vangelo lo divorava. La sua vita appariva ormai assorbita e trasformata in quel Crocifisso che egli non sapeva allontanare dal suo sguardo.
Il 22 settembre 1770, festa di San Maurizio, patrono suo e della provincia cappuccina del Piemonte, fra Ignazio moriva serenamente nella sua cella, all’età di 84 anni. La notizia della sua morte si diffuse rapidamente e fu un accorrere così enorme di popolo per rendere omaggio alla salma che il Superiore del convento, per timore della ressa del popolo, fece celebrare i funerali in anticipo sull’ora stabilita.
La fama della sua santità e i numerosi prodigi attribuiti alla sua intercessione inducono ad avviarne immediatamente il processo di canonizzazione. Dopo la causa ordinaria, nel 1782 viene introdotto il processo apostolico che, a motivo delle vicissitudini della Rivoluzione Francese e delle ricorrenti soppressioni che colpiscono gli Ordini religiosi nell’Ottocento, subisce continui rallentamenti e interruzioni.
E se fin dal 19 marzo 1827 Leone XII riconosce l’eroicità delle virtù di fra Ignazio, solo il 17 aprile 1966, dopo oltre un secolo di quasi totale silenzio, Paolo VI procede alla solenne beatificazione.
Il 19 maggio 2002 Papa Giovanni Paolo II lo fa Santo.
Padre Ignazio da Santhià è probabilmente uno dei “Santi” torinesi più amati dal popolo sebbene sia oggi una delle figure religiose meno “mediatiche”. È, infatti, tra i Santi meno noti che Papa Giovanni Paolo II ha deciso di canonizzare. Eppure alla sua morte, avvenuta nel 1770, la folla accorsa a rendergli omaggio, blocca il Monte dei Cappuccini, tanto da spingere le autorità religiose a celebrare i funerali all’alba, per tutelarne le spoglie già oggetto di culto.
per tutti i secoli dei secoli.
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