Nacque a Tufara nel 1084 da Mainardo e Maria. Sin dalla fanciullezza, benchè visse in ambiente indifferente e quasi ostile, sentì i richiami del cristianesimo autentico e diede alla sua vita un indirizzo deciso. Amava praticare l’ufficio del sacrestano nella chiesa dei santi Pietro e Paolo e questo irritò i genitori e contribuì a diffondere pettegolezzi e maldicenze.
I più invidiosi riferirono che Giovanni elargiva elemosine e donazione di cibo ai poveri del paese. I genitori informati dell’accaduto, un giorno decisero di smascherarlo mentre portava un cesto con i viveri ai poveri. Giovanni senza remore non esitò a obbedire e i genitori restarono esterrefatti nel costatare che quella cesta conteneva rose e fiori. Un segno che il Signore accordava al suo umile servo.
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Accortosi di essere di peso alla famiglia, Giovanni decise di abbandonare la casa e fuggire dal paese per seguire la strada che il Signore gli avrebbe indicato
Appena diciottenne, mosso dal desiderio di approfondire la sua formazione filosofica e teologica, si recò a Parigi.
Un’accreditata testimonianza afferma che Giovanni da Tufara si incontrò in S. Firmiano con il conterraneo e compagno di giovinezza, beato Stefano Corumano di Riccia.
A Parigi, la vita mondana della città, il mondo di dotti e filosofi non rispondevano alle aspettative del beato Giovanni. Lui amava la solitudine perfetta, la contemplazione e il silenzio necessario per ascoltare la Parola di Dio. Decise di ritornare in Italia, a Tufara suo paesello, da dove avrebbe preso le mosse per appagare la sua sete di spiritualità.
Vendette tutto e distribuì ai poveri il ricavato. Abbandonò la sua casa e percorrendo per l’ultima volta le strade della sua Tufara varcò la porta del castello per dare l’ultimo addio a tutto ciò che lo legava al suo paese. Incontrò un povero completamente nudo, con le mani protese verso di lui. Giovanni lo fissò attentamente, poi osservò se stesso e, preso da vergogna di ritrovarsi più ricco di quel poveretto, prese lo straccio di vestito che aveva addosso e rivestì il povero. Completamente nudo, a passi maestosi, s’inoltrò verso le montagne boscose dove condusse vita solitaria e austera in tuguri e grotte.
Preso dall’amore di Dio, rinnegò se stesso, prese la sua croce, assoggettò il corpo allo Spirito, digiunò, a volte, per l’intera settimana. Le sue giornate erano scandite dalla preghiera, dalla meditazione, dalla contemplazione, dalla lettura della Parola di Dio e dalla penitenza.
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Trascorse la maggior parte della sua vita nelle grotte di Baselice nel beneventano. Molti uomini, attratti dal suo esempio e desiderosi di condurre una vita di contemplazione e di preghiera chiesero di unirsi a lui. Giovanni visto il fervore e la sincerità di questi uomini, diede origine ad una forma di vita comunitaria.
Nel 1156 diede il via per la costruzione del monastero in “Gualdo Mazzocca” a Foiano (BN). Divenne un’abbazia da dove partirono i principi attivi del monachesimo in favore degli emarginati e degli oppressi della società feudale, offrendo non solo contemplazione e preghiera, ma sostegno e aiuto concreto.
Nell’anno 1179, il 14 novembre, all’età di ottantasei anni, Giovanni da Tufara, colpito da forte febbre e spossato nella sua fibra pur resistente, alle ore nove morì. Le ultime parole furono di pace e di amore. I frati seppellirono in occulto il corpo del beato fondatore, timorosi che fosse trafugato, in una località sconosciuta del bosco.
Autore: Antonio Galuzzi
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