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Il Santo di oggi – 17 settembre – San Roberto Bellarmino (Vescovo e dottore della Chiesa)

Nel 1592 Bellarmino divenne Rettore del Collegio Romano, funzione che svolse per circa due anni fino al 1594. Nel 1595 divenne Preposito della provincia di Napoli. Nel 1597 papa Clemente VIII lo richiamò a Roma e lo nominò suo consultore teologo, e inoltre “Esaminatore dei Vescovi e Consultore del Sant’Uffizio”. Il 3 marzo 1599 il papa lo fece cardinale presbitero con il titolo di Santa Maria in Via, indicando la motivazione di questo incarico con le parole: La Chiesa di Dio non ha un soggetto di pari valore nell’ambito della scienza. Negli anni successivi Bellarmino fu definito bonariamente spesso come “il gesuita vestito di rosso”, in relazione all’abito cardinalizio che contrastava con la tonaca nera dei gesuiti.


A questo periodo risale anche la nomina, con il cardinale Girolamo Berneri domenicano e vescovo di Ascoli e per questo chiamato Cardinal d’Ascoli, ad assistente del cardinale Madruzzi, presidente della Congregazione “De Auxiliis”, congregazione istituita poco tempo prima dal papa per ricomporre la controversia recentemente sorta tra Tomisti e Molinisti a proposito della natura dell’armonia tra grazia efficace e libertà umana. In tale diatriba che si trascinerà per diversi decenni si contrapponevano gesuiti molinisti e domenicani tomisti.
Il parere di Bellarmino sin dall’inizio fu che tale questione di natura dottrinale non dovesse essere risolta con un intervento autoritativo, ma lasciata ancora alla discussione tra i diversi indirizzi e che ai contendenti di entrambi i campi fosse seriamente proibito di indulgere a censure o condanne dei rispettivi avversari. La maggior parte dei teologi gesuiti di cui Bellarmino era parte erano più vicini alla tesi dei Molinisti e quindi questo suo non schierarsi poteva dar adito a ritenere più valida la tesi Tomista. Clemente VIII all’inizio era propenso ad accettare questa idea conciliante del Bellarmino, ma successivamente cambiò completamente posizione, deciso a dare una più precisa definizione dottrinale in favore della tesi tomista. La presenza di Roberto Bellarmino in tal senso, era diventata imbarazzante, ed egli probabilmente anche per tale motivo lo nominò il 18 marzo 1602 arcivescovo di Capua, sede resasi proprio allora vacante. Clemente stesso volle consacrarlo con le sue mani, un onore che abitualmente i papi concedono come segno di stima speciale; il nuovo arcivescovo partì subito per la sua sede, e si distinse degnamente nel suo ministero.
Nel marzo 1605 Clemente VIII morì e gli succedette prima Leone XI che regnò per solo ventisei giorni, e poi Paolo V. Nel primo e nel secondo conclave, ma soprattutto in quest’ultimo, il nome di Roberto Bellarmino fu spesso dinanzi alle intenzioni degli elettori, specialmente a motivo delle afflizioni subite, ma il fatto che fosse un gesuita costituì un impedimento secondo il giudizio di molti cardinali. Racconta Ludwig Von Pastor storico vaticanista che nei primi giorni del secondo conclave del 1605 un gruppo di cardinali tra i quali Baronio, Sfondrato, Aquaviva, Farnese, Sforza e Piatti si adoperarono per far eleggere il cardinale gesuita Bellarmino; ma questi era contrario tanto che saputo della sua candidatura rispose che avrebbe volentieri rinunciato anche al titolo cardinalizio; il suo appoggio durante il conclave sembra fosse rivolto verso il cardinal Baronio. L’accordo in conclave si trovò poi sul cardinale Camillo Borghese.
Il nuovo Papa Paolo V, eletto con l’accordo delle maggiori potenze cattoliche, insistette nel tenerlo con sé a Roma, e il cardinale chiese che almeno egli fosse esonerato dal ministero episcopale le cui responsabilità egli non era più in grado di adempiere. A questo punto egli fu nominato membro del Sant’Uffizio e di altre congregazioni, e successivamente consigliere principale della Santa Sede nel settore teologico della sua amministrazione. La disputa “De Auxiliis”, che alla fine Clemente non aveva avuto modo di portare a termine, fu conclusa con una decisione che ricalcava le linee dell’originaria proposta di Bellarmino.
Il 1606 segnò l’inizio della contesa tra la Santa Sede e la Repubblica di Venezia, che senza consultare il Papa e versando in cattive condizioni finanziarie, aveva abrogato la legge di esenzione del clero dalla giurisdizione civile e tolto alla Chiesa il diritto di possedere beni immobili. La disputa portò ad una guerra di libelli durante la quale le difese della parte repubblicana furono sostenute da Giovanni Marsilio e dal frate servita Paolo Sarpi, che si erano posti in netto contrasto con la Chiesa cattolica. In questa disputazione la Santa Sede fu difesa nobilmente dal cardinal Bellarmino e dal cardinal Baronio.
Contemporaneamente alle contrapposizioni della Repubblica Veneziana ci furono quelle concernenti il Giuramento inglese di lealtà. Nel 1606, in aggiunta alle vessazioni già imposte ai cattolici inglesi dai monarchi inglesi, fu chiesto, sotto pena di prœmunire, di prestare un giuramento di fedeltà abilmente formulato con tale astuzia che un cattolico, nel rifiutarlo, sarebbe potuto apparire come un cittadino che si sottraeva ai suoi doveri civili e quindi perseguibile, mentre, se lo avesse effettuato, avrebbe non solo rifiutato ma persino condannato come empio ed eretico l’insegnamento sul potere di deporre, ossia, del potere di deporre un sovrano che, giustamente o erroneamente, la Santa Sede aveva rivendicato ed esercitato per secoli con la piena approvazione della cristianità, e che, anche in quel periodo, la stragrande maggioranza dei teologi continuava a sostenere. Poiché la Santa Sede aveva proibito ai cattolici di prestare questo giuramento, il re inglese Giacomo I d’Inghilterra, divenuto re dopo la morte di Elisabetta I ed essendo re di Scozia, di fede protestante, scrisse la difesa di tal giuramento in un libro intitolato Tripoli nodo triplex cuneus; Bellarmino replicò al monarca con il suo Responsio Matthei Torti. Altri trattati seguirono dall’uno e dall’altro campo, e, risultato di uno di essi, fu lo scritto a confutazione del potere di deporre i sovrani da parte di William Barclay, famoso giurista scozzese, residente in Francia; al quale si contrappose la replica del Bellarmino. Le confutazioni del giurista scozzese furono poi utilizzate dal Parlamento parigino, di orientamento regalista. La conseguenza fu che, a seguito della dottrina della via media del potere indiretto di deporre i sovrani, il Bellarmino fu condannato nel 1590 come troppo incline alle posizioni regaliste e nel 1605 come eccessivamente papalista.

Il caso Giordano Bruno

L’istruzione di questo processo coinvolse anche Bellarmino che era consultore del Sant’Uffizio e lo portò ad avere alcuni colloqui con l’inquisito durante sette anni dal 1593 al 1600. Il processo si protraeva per il fatto che le ammissioni di eresia che l’imputato ammetteva durante i venti interrogatori a cui fu sottoposto, ed alcuni anche mediante la tortura, erano successivamente smentite davanti alla corte del Tribunale dell’Inquisizione. Bellarmino non partecipò mai personalmente alle sedute degli interrogatori nei quali si poteva attuare la tortura. Per ordine del Papa Clemente VIII, il 20 gennaio 1600, il tribunale dell’Inquisizione pronunciò il verdetto di condonna al rogo.

Il caso Galileo Galilei

Bellarmino non visse fino all’epilogo del processo e alla condanna a Galileo Galilei, ma nel 1615 egli prese parte alla prima fase. Il cardinale fece parte della commissione vaticana che ammonì Galileo dal continuare ad insegnare la teoria eliocentrica nel 1616 e fu proprio lui a comunicargli l’ammonizione che conteneva con una lettera rimasta famosa.
In precedenza aveva sempre mostrato interesse nelle scoperte dello scienziato e si era trattenuto in amichevole corrispondenza con lui. Aveva pure assunto, come testimoniato dalle sue lettere all’amico di Galileo, Paolo Antonio Foscarini, un atteggiamento aperto verso le teorie scientifiche, ammonendolo, tuttavia, di non cercare una dimostrazione della loro esattezza limitandosi a porle come ipotesi.

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