Giulia nasce il 26 giugno 1847 ad Aosta. Non ha ancora compiuto 5 anni e muore sua madre. Giulia e il fratellino Francesco vengono trasferiti a Donnaz nel 1853, dove vivono i parenti materni. Poi la bambina viene inserita nel collegio di Besançon, dove si trovano le Suore della Carità di santa Giovanna Antida Thouret. Ore di solitudine e di smarrimento per la piccola che si sente abbandonata.
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Ritorna a casa quando ha 16 anni e suo padre, Anselmo Valle, sempre molto preso con la sua attività di commerciante, si è risposato. Per lei ancora più solitudine, ancora più dolore. Colma di attenzioni e tenerezze il fratello, alquanto insofferente alla matrigna. Giulia sopporta rimproveri, dispetti e umiliazioni, mentre Francesco litiga continuamente con la seconda moglie del padre e a 16 anni, dopo una delle ennesime liti decide di andarsene da casa e con il consenso del padre lascia la famiglia in cerca di fortuna.
Dopo la partenza del fratello l’esistenza di Giulia fu più triste e più dura, per trovare conforto cerca rifugio in chiesa, dove si ferma a pregare.
La nuova abitazione della famiglia Valle è ora a Pont. St. Martin. Anche qui, nel profondo della solitudine e della sofferenza, si lega alle Suore di santa Giovanna Antida Thouret, dedite a qualunque attività caritativa, con un’attenzione tutta particolare all’educazione e alla cura degli infermi. Maturò qui la sua vocazione e quando il padre le rivelò l’intenzione di un giovane di sposarla, lei, che fino a quel momento non aveva avuto il coraggio di parlarne, gli spiega: «Ho promesso al Signore di consacrare la mia vita a salvare le anime. Non desidero che di farmi suora». Il 7 settembre 1866 il padre l’accompagnò nella Casa provinciale di Santa Margherita di Vercelli.
A partire dal 1839 le Suore della Carità di Sant’Antida Thouret, su invito del vescovo, aprono a Tortona, in via Passalacqua, nei pressi del seminario, una scuola, dove vengono accolte anche le orfanelle con le quali suor Nemesia si fa madre premurosa. Proprio alle orfanelle faceva scrivere su dei bigliettini, brevi tratti del Vangelo e li faceva seminare nelle vie più frequentate di Tortona o sulle panchine delle piazze affinché la gente li leggesse e rafforzasse il proprio spirito di fede, trovando giovamento e conforto.
Beneficava tutti, anche fuori dalla realtà dell’istituto: seminaristi e soldati, mendicanti, poveri, madri di famiglia, ammalati.
Al mattino, molto presto, scivolava, inosservata, fra le vie più nascoste di Tortona, a portare beni e parole di conforto ai poveri più poveri e dimenticati. Nel 1886 diventa Superiora dell’Istituto San Vincenzo a Tortona, dove rimarrà per oltre 30 anni.
È la prima ad alzarsi, è l’ultima ad andare a letto. Prima della colazione ogni ambiente dell’Istituto di Tortona ha già ricevuto il suo sorriso.
Suor Nemesia è alla porta, in parlatorio, in città, cuce, è in preghiera, di notte è al suo tavolo per scrivere a chi ha bisogno di sostegno, conforto, consiglio. Durante il colera che colpì la città nel 1890 non esitò ad aprire la porta dell’Istituto che in breve tempo si riempì di pazienti, ma fu disposta addirittura a cedere la propria camera per i malati, trovando lei posto sul divano.
Tortona la ama fortemente e doloroso sarà il distacco quando suor Nemesia verrà improvvisamente trasferita: la sua nuova mansione è quella di essere maestra delle novizie di Borgaro Torinese, il cui castello è la sede di una nuova casa provinciale dove tuttora prosegue l’attività delle Suore di Carità.
Umiliazione, sconforto, infinita tristezza. La pena è molta, lacerante lo sradicamento dalla realtà che aveva realizzato la sua persona, per questo continua a ripetere: «Dio solo! Dio solo!».
Ritorna a quella solitudine delle sue valli aostane. Gli anni del “successo” e della “notorietà” sono terminati. Ora, nel silenzio, suor Nemesia procede nel suo cammino di santità e di ascesi senza rumore.
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È sempre più stanca, più curva, perseguitata dall’incomprensione della sua Superiora. Esiste ancora oggi a Borgaro, dove fu maestra di più di 500 novizie, un vecchio solaio, si tratta del «solaio di suor Nemesia»: lì si rifugiava, affaticata dal tempo e dalle umiliazioni, fra i bauli delle novizie, offrendo la sua solitudine estrema a Dio.
Colpita da polmonite suor Nemesia morì il 18 dicembre 1916 e il suo corpo rimase caldo e flessibile per due giorni.
Suor Nemesia aveva molto amato e «l’amore donato», diceva, «è la sola cosa che rimane», quell’amore la porterà alla beatificazione e «la santità non consiste nel fare molte cose o nel farne di grandi, ma nel fare ciò che Dio chiede a noi, con pazienza, con amore, donando noi stesse a lui, soprattutto con la fedeltà al proprio dovere, frutto di grande amore. Santo è chi si consuma, al proprio posto di ogni giorno, per il Signore».
Autore: Cristina Siccardi
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