Clelia Merloni è stata una religiosa italiana, fondatrice dell’Istituto delle Suore Apostole del Sacro Cuore di Gesù. Il 26 gennaio 2018 papa Francesco ha firmato il decreto che riconosce un miracolo attribuito all’intercessione di Clelia Merloni e il 3 novembre successivo è stata beatificata a Roma, nella basilica di San Giovanni in Laterano.
Clelia Merloni nasce a Forlì il 10 marzo 1861, ultima e unica sopravvissuta delle tre figlie di Gioacchino Merloni e Maria Teresa Brandinelli. Fu battezzata nella cattedrale di Forlì lo stesso giorno della nascita, coi nomi di Clelia Cleopatra Maria.
Il 2 luglio 1864, Clelia perse la madre. Affidata alla nonna materna perché il padre, già operaio ferroviere, si era trasferito a Sanremo in cerca di un’occupazione migliore. Una volta migliorata la propria posizione, Gioacchino si fece raggiungere dalla figlia. Si risposò con Maria Giovanna Boeri, che volle molto bene alla piccola Clelia. La bambina ricambiava il suo affetto e ascoltava con attenzione i suoi insegnamenti, improntati ai principi religiosi.
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Tuttavia, il padre iniziò una relazione con una delle domestiche di casa, Bianca, che cominciò a comportarsi come se fosse la padrona. Clelia soffrì parecchio per la situazione che si era venuta a creare, tanto più che Maria Giovanna decise di lasciare il tetto coniugale.
Il 23 ottobre 1872 riceve la Cresima nella basilica di San Siro a Sanremo, per le mani di monsignor Lorenzo Biale, vescovo di Ventimiglia. Non esistono documenti relativi, invece, al giorno della Prima Comunione.
Gioacchino, intanto, era diventato tanto ricco da poter fornire a Clelia la miglior educazione possibile. Per alcuni mesi, la ragazza fu allieva interna dell’istituto delle Suore della Purificazione a Savona, precisamente dall’11 ottobre 1876 al 18 gennaio 1877, quando uscì per motivi di salute. Tornata in famiglia, arricchì la propria formazione con lezioni private di francese e inglese e imparò anche a suonare il pianoforte.
Tuttavia, provava un certo disagio di fronte a quelle lezioni, giudicate necessarie perché diventasse una buona padrona di casa e una donna da sposare. Piuttosto che nei salotti e nei ricevimenti cui era obbligata a partecipare, si sentiva meglio quando riusciva ad andare a pregare in qualche chiesa.
Inoltre, si era accorta che il padre era diventato particolarmente attaccato al denaro e in più, pur non condividendone alcune posizioni anticlericali, si era avvicinato alla massoneria. Anche per questa ragione, ossia per riparare le colpe paterne, Clelia comprese di dover consacrare tutta sé stessa a Dio.
Manifestò quindi al padre il suo desiderio: in tutta risposta, si vide presentare un ricco giovane amico di famiglia. Quando l’uomo si rese conto che la figlia s’intristiva e restava chiusa alle sue proposte, le concesse di partire, assegnandole anche un contributo fisso mensile in denaro.
Il 19 novembre 1883, Clelia è accolta fra le Figlie di Nostra Signora della Neve, una congregazione fondata appena quarant’anni prima dal canonico Giovanni Battista Becchi. Il 7 settembre 1884, con la vestizione religiosa, ricevette il nome di suor Albina.
Pronta a vivere l’indirizzo specifico dell’istituto, che puntava all’educazione dell’infanzia e viveva con particolare intensità la devozione al Sacro Cuore di Gesù, suor Albina dovette però fare i conti con la sua salute cagionevole.
Fu trasferita nella casa che le suore avevano a Diano Marina, ma il 23 febbraio 1887 la zona fu colpita da un terremoto. Così, dato che l’edificio era inagibile, dovette tornare in famiglia.
Clelia, che aveva quindi ripreso il suo nome di Battesimo, mise a frutto quanto aveva imparato nei suoi primi passi nella vita consacrata. Si trasferì a Nervi, all’epoca comune autonomo nei pressi di Genova: insieme a Giuseppina Coen e a una suora, Vittoria Bruzzo. Aprì un piccolo orfanotrofio nell’agosto 1888.
Tuttavia, l’orfanotrofio fu costretto a chiudere dopo meno di un anno. Una delle insegnanti, esercitava punizioni corporali troppo severe sulle bambine, in particolare su Natalina Berretta.
Clelia, che era la dirigente della struttura, dovette affrontare tre processi penali: lei fu riconosciuta innocente, ma dovette ugualmente pagare di tasca propria la multa ordinata dal tribunale.
A quel punto, Clelia cominciò a domandarsi se davvero Dio volesse la sua consacrazione. Entrata a contatto con le suore Figlie della Divina Provvidenza, si sentì rispondere che, per farsi aiutare meglio, doveva rivolgersi direttamente al fondatore, don Luigi Guanella, che risiedeva a Como.
Il 14 agosto 1892 fu ricevuta dal futuro Santo (è stato canonizzato nel 2011), il quale notò subito che in lei c’era qualcosa di particolare. Così, Clelia cominciò a vivere le opere tipiche della congregazione: insegnava a leggere e a far di conto alle piccole orfane, le istruiva nel canto per la liturgia e dormiva in una cameretta vicina al loro dormitorio. In più, spesso andava alla questua, con la quale coinvolgeva molte persone nell’opera di don Guanella.
Mentre era nel pieno della sua nuova vita, Clelia ebbe un altro crollo fisico: la tubercolosi, di cui aveva già sofferto, si ripresentò nel 1893. Il medico della congregazione la giudicò in fin di vita: fu quindi ordinato che le venissero amministrati i Sacramenti dei moribondi.
Il confessore della comunità, don Pietro Uboldi, venne al capezzale di Clelia, ma si sentì rivolgere una confidenza: lei sentiva di dover fondare un’opera dedicata al Cuore di Gesù. Certo che non stesse delirando, il confessore invitò le suore e le orfane a compiere una novena alla Madonna. Se fosse stato volere di Dio che l’opera sorgesse, la malata si sarebbe ripresa.
Terminata la novena, Clelia risultò perfettamente guarita. Aiutata dai superiori, comprese di dover dare corpo a quel progetto. Lo stesso don Guanella acconsentì alla sua partenza, in modo che potesse dedicarsi pienamente alla sua nuova missione, e le lasciò una lettera come garanzia.
Seguendo un’ispirazione avuta in sogno, Clelia partì, insieme a Elisa Pederzini, verso Viareggio. Non sapeva neppure dove fosse: dovette cercarla sulla carta geografica. Il 30 maggio 1904, le due donne vennero accolte dal parroco della chiesa di San Francesco (oggi di Sant’Antonio di Padova), padre Serafino Bigongiari, il quale le presentò ai parrocchiani.
La piccola comunità, cui si aggiunsero altre donne, cambiò molte volte abitazione, ma non l’intento: accogliere ed educare bambine e ragazze orfane, insieme a donne anziane.
L’11 giugno 1894 Clelia, Elisa e Teresita, la prima che le aveva raggiunte, indossarono una sorta di divisa: nascevano quindi le Apostole del Sacro Cuore di Gesù. Non si può parlare propriamente di vestizione, perché non avevano nessuna forma di riconoscimento canonico.
Di fatto, il vescovo di Lucca, monsignor Nicola Ghilardi, fu molto contrariato del fatto che padre Serafino avesse accolto le due viaggiatrici senza prima avvisare lui. Da allora cominciò un lungo periodo di contrasti tra Clelia, ormai Madre fondatrice, e la Curia vescovile lucchese.
Intanto, suo padre era in fin di vita. La maggior preoccupazione di madre Clelia era che rischiava di morire senza essersi riconciliato con Dio. Cominciò quindi a viaggiare sempre più spesso tra Viareggio e Sanremo, causando parecchi malumori nelle suore.
Gioacchino Merloni, alla fine, morì il 27 giugno 1895: come la figlia aveva sperato, aveva ricevuto gli ultimi Sacramenti ed era morto prima che finisse il mese, tradizionalmente dedicato al Sacro Cuore, di giugno.
Diventata erede di tutti i suoi beni, madre Clelia pensò di lasciarne l’amministrazione a un collaboratore del padre, ma suor Elisa la convinse ad affidarla a don Clemente Leoni, parroco di San Giuseppe a Sanremo, che aveva assistito Gioacchino nei suoi ultimi tempi.
Una mattina, madre Clelia si svegliò di soprassalto e scosse suor Elisa, che dormiva nella stessa camera: le ordinò di venire con lei a Sanremo, perché erano rovinate. Arrivate in città, scoprirono che l’amministratore aveva dilapidato parte del patrimonio ed era scappato in Francia col resto.
Per questa ragione, le suore e la stessa fondatrice cominciarono a questuare per ottenere fondi e, in tal modo, evitare la chiusura delle scuole e degli orfanotrofi da loro istituiti. Madre Clelia, da parte sua, cercava di leggere nel modo giusto l’accaduto.
Fu in quel modo che suor Nazzarena Viganò e suor Giuseppina Heim, di passaggio per Piacenza agli inizi del 1898, entrarono in contatto col vescovo del luogo, monsignor Giovanni Battista Scalabrini (Beato dal 1997). Sconvolto dall’incontro con la realtà degli emigranti, aveva già fondato i Missionari di San Carlo per l’assistenza degli italiani all’estero.
Monsignor Scalabrini accolse le prime figlie di madre Clelia nel febbraio 1899, vedendo in loro un aiuto provvidenziale per realizzare la nascita del futuro ramo femminile dei Missionari di San Carlo. In più, il 25 ottobre 1895, aveva ricevuto i voti temporanei delle prime “Ancelle degli orfani e dei derelitti all’estero”.
Le suore di madre Clelia ricevettero una formazione apposita, ma il risultato fu che, quando venne a trovarle all’Istituto Cristoforo Colombo di Piacenza, alcune di esse non vollero incontrarla.
Peraltro, monsignor Scalabrini stava pensando di cambiare il nome della loro fondazione. Appena lo seppe, madre Clelia lo supplicò in una lettera: «Lasciare il titolo di Apostole del Sacro Cuore per prenderne un altro, non è più mandare avanti l’opera incominciata per la quale sacrificai salute, riputazione e tutto quanto il mio patrimonio, ma sarebbe distruggerne uno per fondarne un altro».
Si disse anche disposta a ritirarsi ad Alessandria, ospite di madre Maria Antonia Grillo Michel (al secolo Teresa, beatificata nel 1998) e delle sue Piccole Suore della Divina Provvidenza, pur di salvare tutto.
Monsignor Scalabrini comprese le sue preoccupazioni: le offrì di aprire una casa ad Alessandria e di far venire a Piacenza quindici suore, che di fatto furono dodici. Questo gruppo risiedette, dal 2 giugno 1899, all’albergo della Croce Rossa e fu affidato, per la formazione, a suor Candida Quadrani, delle Figlie di Sant’Anna.
Madre Clelia chiese chiarimenti, perché non vedeva bene il fatto che le sue suore avessero una formazione separata. Monsignor Scalabrini ebbe una reazione inizialmente dura, ma poi l’invitò a venire a Piacenza, anche perché, intanto, la casa di Viareggio era prossima alla chiusura.
Tra il 14 e il 16 febbraio 1900, le suore della comunità di Alessandria e madre Clelia, scaduto il contratto d’affitto, passarono nella Villa San Francesco a Castelnuovo Fogliani.
Nel maggio successivo, anche le suore dell’Istituto Cristoforo Colombo le raggiunsero.
Il 10 giugno 1900, monsignor Scalabrini approvò per un decennio le Costituzioni della nuova congregazione, che aveva una duplice finalità: garantire il servizio ai migranti e propagare il culto al Sacro Cuore di Gesù. La prima professione fu celebrata il 12 giugno nella cattedrale di Piacenza: professarono nove suore, compresa madre Clelia.
Il nome alla fine fu fissato in Suore Apostole Missionarie del Sacro Cuore. Il secondo aggettivo è lasciato cadere quasi subito, per evitare confusione con le omonime Missionarie del Sacro Cuore fondate da madre Francesca Saverio Cabrini (canonizzata nel 1946).
Due mesi dopo, le prime Apostole partirono per il Brasile, precisamente per San Paolo. Tuttavia, anche lì si crearono contrasti: suor Elisa Pederzini fu nominata superiora, in sostituzione di madre Assunta Marchetti (beatificata nel 2014). Già presente sul luogo con le prime “Ancelle degli orfani e dei derelitti all’estero”. Le due comunità non riuscirono mai a fondersi del tutto: erano troppe le divergenze nei carismi originari.
Un secondo gruppo fu destinato invece a Curitiba, nel Paraná, dove si occupò di un orfanotrofio. Le vocazioni locali non tardarono a venire: dopo qualche tempo, fu aperto il primo noviziato a Santa Felicidade, nei pressi di Curitiba.
Il 16 giugno 1902, infine, altre Apostole del Sacro Cuore sbarcarono a Boston, negli Stati Uniti d’America, in appoggio alla parrocchia del Sacro Cuore, retta dai Missionari di San Carlo. Anche lì, dopo qualche anno, insorsero questioni economiche, che portarono madre Clelia a difendere con un suo scritto l’operato delle sue figlie.
In Italia, invece, la Casa madre era stata stabilita a Piacenza, a Palazzo Falconi, nei primi mesi del 1901. Grazie alla rivista «Il trionfo del Cuore di Gesù sul cuore umano» e a lettere da lei spedite a molti parroci del Nord Italia, madre Clelia poté accogliere numerose postulanti.
Quell’azione fece finire le Apostole del Sacro Cuore sulle pagine del «Corriere della Sera», in un articolo dove le si accusava di reclutare forzatamente le giovani, ma si verificò l’opposto: molte, dopo averlo letto, s’informavano circa la nuova istituzione. Anzi, se madre Clelia riconosceva che le candidate erano più adatte, ad esempio, per l’istituto di madre Maria Antonietta Michel, le inviava a lei, che ricambiava.
Le accuse contenute in quell’articolo erano di poco conto rispetto a quelle cui madre Clelia faceva sempre più fronte. Se da una parte perdonava, dall’altra esprimeva i propri dubbi a monsignor Scalabrini, tanto più che le voci calunniose erano giunte alla Sacra Congregazione dei Religiosi.
La morte improvvisa del vescovo, avvenuta il 1 Giugno 1905, addolorò moltissimo madre Clelia. Il suo successore sulla cattedra di Piacenza, monsignor Giovanni Maria Pelizzari, le consigliò di passare sotto la diocesi di Alessandria. Invece, il nuovo superiore generale dei Missionari di San Carlo, padre Domenico Vicentini, affermò di non avere nessuna competenza giuridica sulle sue suore.
In Brasile, in un secondo momento, si verificò la separazione tra le suore di madre Clelia e quelle di madre Assunta Marchetti, che dal 22 settembre 1907 passarono sotto la giurisdizione del vescovo di San Paolo del Brasile. Il loro nome definitivo divenne poi quello di Suore Missionarie di San Carlo, dette popolarmente Scalabriniane.
Nel 1909 si svolse la prima visita apostolica all’istituto di madre Clelia. Ne seguirono altre, nei due anni successivi, ma in nessun caso è interpellata direttamente la fondatrice. Piuttosto, sono ascoltate voci a lei avverse.
Il risultato fu che, nel 1911, madre Clelia è deposta dal ruolo di superiora generale.
La casa generalizia è trasferita a Roma nel 1913, il nome dell’istituto cambia ancora: da Apostole a Zelatrici del Sacro Cuore.
Madre Clelia, che risiedeva ad Alessandria, tentò di ottenere ascolto da papa Benedetto XV, ma invano. Le restava una sola possibilità: chiedere la dispensa dei voti, pur di salvare le sue figlie. La richiesta, scritta il 10 aprile 1916 e rinnovata il 29 maggio, fu accolta. Il 2 giugno fu notificato che la Sacra Congregazione dei Religiosi, il 24 maggio, aveva concesso la dispensa.
Per Clelia e per le poche suore che le erano rimaste fedeli cominciò un vero e proprio esodo, che ebbe come prima tappa Genova, dal giugno 1916 al settembre 1917, quando si spostarono a Torino. Non mancarono per lei i dubbi e i momenti di smarrimento, che annotò nel suo diario. Allo stesso tempo, ottenne degli aiuti finanziari da parte dell’arcivescovo di Torino, il cardinal Agostino Richelmy.
Dal 4 ottobre 1921 si spostò a Roccagiovine (Roma), ospite di don Giuseppe Di Gennaro, parroco del luogo, che l’aveva conosciuta a Torino. Dal giorno dell’arrivo, Clelia, la cui salute stava peggiorando, si dedicò prevalentemente a sostenere con la preghiera le sorelle che l’avevano seguita e che insegnavano il catechismo in paese.
Quando don Giuseppe fu nominato parroco a Marcellina (Roma), anche le suore vennero con lui. Nello stesso anno 1924, Clelia emise il voto di umiltà, col quale s’impegnava ad abbassare il suo amor proprio, purché trionfasse quello di Gesù. Continuava la sua vita ritirata, nella quale aveva grande spazio la preghiera, specie per le sue Apostole e per quanti, in vario modo, l’avevano ferita.
Col tempo, Clelia si era resa conto di aver domandato la dispensa dai voti in un momento di smarrimento. Certa di aver ancora poco tempo, sollecitò di poter vivere i suoi ultimi giorni come Apostola del Sacro Cuore.
Dopo un cospicuo scambio di lettere con madre Marcellina Viganò, la madre generale, il 7 marzo 1928 partì alla volta di via Germano Sommeiller a Roma, sede della Casa generalizia. Avrebbe riemesso i voti dopo aver seguito un corso di Esercizi spirituali, ma, secondo alcuni testimoni oculari, lo fece solo poco prima di morire.
Le fu assegnata una stanza al secondo piano, con una piccola porta che dava sul coretto della chiesa interna alla casa. In quel modo, poteva adorare Gesù nel Tabernacolo senza spostarsi troppo. Era quasi la sua unica compagnia, dal momento che non poteva avere visite senza il permesso delle superiore. Alle suore giovani non si parlava mai di lei, né era concesso di chiedere informazioni.
Nel novembre 1930 la salute di madre Clelia si aggravò: le era stato diagnosticato un tumore all’intestino. Nonostante i dolori, era serena e li offriva per i peccatori e per le sue suore. Ricevette dal cappellano della casa, monsignor Raffaele Fulin, la Comunione e l’assoluzione.
Verso l’una di notte del 21 novembre, perse i sensi: si riebbe dopo aver ricevuto l’Unzione degli Infermi. Rispose alle preghiere suggerite dal cappellano e continuò a chiedere perdono delle proprie colpe. Qualche istante dopo, morì.
Il 23 novembre si svolse il suo funerale, dopo il quale fu sepolta nella cappella del Cuore di Gesù agonizzante presso il cimitero del Verano, dato che le Zelatrici del Sacro Cuore non avevano una tomba propria. I suoi resti mortali rischiarono di andare dispersi durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Furono riconosciuti e traslati, il 20 maggio 1945, nella chiesa annessa alla Casa generalizia.
Sulla lastra tombale fu definita, per la prima volta dopo anni, come Fondatrice. Fu il primo passo per una riscoperta del suo ruolo effettivo, promossa dalla quarta superiora generale, suor Hildegarde Campodonico. Seguirono le prime ricerche storiche, compendiate in alcune biografie, e la pubblicazione delle lettere.
Il 2 febbraio 1968, a seguito della richiesta formulata dall’assemblea generale straordinaria, le Zelatrici del Sacro Cuore tornarono al nome originario, come voluto da madre Clelia stessa. La sua fama di santità riemerse a partire dalla sua congregazione, dove, dal 1969, cominciò a essere recitata una preghiera per chiedere la sua intercessione.
Il processo informativo diocesano per l’accertamento delle sue virtù eroiche si è svolto dal 18 giugno 1990 al 1 aprile 1998, presso il Vicariato di Roma. La Congregazione delle Cause dei Santi ha convalidato gli atti del processo il 21 maggio 1999.
La “Positio super virtutibus”, trasmessa nel 2014, è stata esaminata il 20 ottobre 2015 dai Consultori Teologi della Congregazione delle Cause dei Santi. Il 13 dicembre 2016, anche i cardinali e i vescovi membri della stessa Congregazione si espressero a favore dell’esercizio in grado eroico delle virtù. Infine, il 21 dicembre 2016, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui madre Clelia Merloni veniva dichiarata Venerabile.
Come possibile miracolo per ottenere la sua beatificazione è stato preso in esame quanto avvenuto a Pedro Ângelo de Oliveira Filho, medico brasiliano. Il 14 marzo 1951 è colpito da una paralisi ai quattro arti. Dopo il trasferimento all’ospedale Santa Casa della Misericordia di Ribeirao Preto, gli è diagnosticata più precisamente come paralisi ascendente progressiva. Dovuta alla sindrome di Landry o di Guillain-Barré.
Nel giro di poche settimane, la paralisi raggiunse la gola, in modo tale che il malato non poteva neppure deglutire. Il 20 marzo, i medici riferirono ai familiari del malato di prepararsi al peggio. La sera stessa, Angelina Oliva, moglie del malato, incontrò un’Apostola del Sacro Cuore, suor Adelina Alves Barbosa, infermiera presso l’ospedale.
La suora prese un’immaginetta con la novena a madre Clelia, a cui era attaccata una reliquia “ex indumentis”, tratta dal suo velo. Dal frammento di stoffa prese un filo sottile, che mise in un cucchiaino con un po’ d’acqua. Lo diede al malato, mentre la moglie e i figli pregavano per lui.
Dopo qualche minuto, visto che l’acqua era ingerita, la suora gli passò due dita d’acqua in un bicchiere, che bevve completamente. Subito dopo gli diede del latte e, infine, una crema di latte e mais. Nel giro di venti giorni, Pedro Ângelo è dimesso in completa salute. Morì il 25 settembre 1976 per arresto cardiaco, quindi per cause estranee alla precedente malattia.
Il processo diocesano sull’asserito miracolo si è svolto, anche se il fatto è avvenuto in Brasile, presso il Vicariato di Roma, dal 25 gennaio 2005 all’11 aprile 2011. La Consulta medica della Congregazione delle Cause dei Santi, il 23 febbraio 2017, si è pronunciata a favore dell’inspiegabilità scientifica dell’accaduto.
Il 27 giugno successivo, il Congresso peculiare dei Teologi ha espresso il proprio parere affermativo circa l’avvenuta guarigione e l’intercessione della fondatrice delle Apostole del Sacro Cuore. I cardinali e i vescovi della Congregazione delle Cause dei Santi, il 9 gennaio 2018, hanno confermato quel giudizio positivo.
Il 27 gennaio 2018, ricevendo in udienza il cardinal Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui la guarigione di Pedro Ângelo de Oliveira Filho era da considerare un miracolo ottenuto per intercessione di madre Clelia Merloni.
La beatificazione è stata celebrata il 3 novembre 2018 a Roma, nella basilica di San Giovanni in Laterano. A presiedere il rito, come delegato del Santo Padre, il cardinal Giovanni Angelo Becciu, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi.
Le Apostole del Sacro Cuore sono circa un migliaio con comunità in quindici paesi del mondo: Svizzera, Brasile, Argentina, Cile, Uruguay, Stati Uniti, Mozambico, Benin, Albania, Taiwan e Filippine.
Portano avanti gli insegnamenti di madre Clelia prevalentemente in istituti scolastici, ma anche in case-famiglia, ospedali e case di cura. All’istituto è aggregata la Grande Famiglia del Sacro Cuore, formata da famiglie e da singoli fedeli laici.
Fonte www.santiebeati.it – Emilia Flocchini
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