A Pavia, commemorazione di san Severino Boezio, martire, che, illustre per la sua cultura e i suoi scritti, mentre era rinchiuso in carcere scrisse un trattato sulla consolazione della filosofia e servì con integrità Dio fino alla morte inflittagli dal re Teodorico.
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Nasce a Roma da famiglia senatoriale nel 476; era coetaneo di san Benedetto e di qualche anno più giovane di Cassiodoro.
Rimase orfano nella fanciullezza e fu educato da nobili romani legati al padre per censo, parentela e attività politico-culturali.
Trascorse l’adolescenza tra dotti studiosi e senatori, a 25 anni è già senatore e poi console unico dal 510.
Sposa Rusticiana e con lei ha due figli che saranno consoli a loro volta, nel 522.
Nel 497, però, Roma è invasa dagli Ostrogoti di Teodorico; Boezio è tra quei romani colti che credono nella convivenza, e quindi nella possibilità di incontro tra le due culture.
All’inizio Teodorico lo stima e gli chiede consiglio, anche perché lui, avendo scritto molto di logica, matematica, musica e teologia, è un uomo influente del suo tempo.
Poi però accade qualcosa. Per aver difeso l’innocenza di un senatore Albino e rivendicato la dignità del Senato, è accusato di corruzione dallo stesso Teodorico che – da ariano e barbaro qual è – teme, in realtà, che Boezio gli preferisca l’imperatore bizantino Giustiniano.
Per questo lo fa esiliare e rinchiudere in carcere a Pavia, dove verrà giustiziato il 23 ottobre 524.
In carcere Boezio sa che sta scontando una pena ingiusta, per questo cerca la luce, la consolazione, la saggezza. Tutto ha inizio con una riflessione sulla giustizia umana, in cui spesso, come nel suo caso, alberga tanta reale ingiustizia.
Così inizia a scrivere come in prigione i beni apparenti scompaiano, lasciando spazio ai beni autentici, come l’amicizia ad esempio, o come il Bene più alto, il Sommo Bene, che è Dio.
Dio non lo lascia solo, non gli permette di cadere nel fatalismo e di spegnere la speranza; gli insegna che a governare il mondo è la Provvidenza, che ha il Suo volto.
Con il volto di Dio, allora, il condannato a morte Boezio può dialogare attraverso la preghiera e così raggiungere la salvezza.
Questo è, in estrema sintesi, il contenuto della sua opera più grande (ha scritto diverse opere sia scientifiche che teologiche), il De consolatione philosophiae in cui, riprendendo un genere letterario caro alla tarda antichità, egli ricorre alla consolazione del pensiero, appunto, come medicina al dramma esistenziale che sta vivendo.
Inizia a misurare non quello che ha perduto, ma quello che gli è rimasto, arrivando a capire che la felicità si può trovare solo proiettandosi all’infinito, cioè nella dimensione che è propria di Dio.
Analogamente, la libertà dell’uomo si realizza solo quando questi si mantiene legato al piano che la Provvidenza gli ha riservato.
Mai, dunque, crogiolarsi nella condizione di sofferenza in cui ci si trova, ma tendere sempre e comunque al Bene, a Dio: questo, in effetti, è il più autentico insegnamento di tutti i martiri.
La perorazione finale del De consolatione philosophiae può essere considerata una sintesi dell’intero insegnamento che Boezio rivolge a se stesso e a tutti coloro che si dovessero trovare nelle sue stesse condizioni. Scrive così in carcere:
“Combattete dunque i vizi, dedicatevi ad una vita virtuosa orientata dalla speranza che spinge in alto il cuore fino a raggiungere il cielo con le preghiere nutrite di umiltà. L’imposizione che avete subìto può tramutarsi, qualora rifiutiate di mentire, nell’enorme vantaggio di avere sempre davanti agli occhi il giudice supremo che vede e sa come stanno veramente le cose” (Lib. V, 6: PL 63, col. 862).
Viene considerato il fondatore della Scolastica medievale, il suo pensiero era già conosciuto da Dante che lo chiamava “anima santa”.
Concedi alla mia mente, o Padre,
di elevarsi alla tua sede sublime.
Concedimi di contemplare Te fonte di ogni bene.
Ch’io possa trovare la luce
e, trovatala, fissare in Te gli occhi attenti dell’anima.
Dissolvi le nebbie e il peso del mio essere di terra e rifulgi del tuo splendore.
Tu sei il sereno, Tu quiete e pace per i giusti.
Il nostro fine è contemplare Te, perché Tu sei il Principio e sei allo stesso tempo per noi compagno e guida, via e meta. Amen.
( De Consolatione Philosophiae III,9.22-28)
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