Jacopo de Benedictis detto Jacopone da Todi è stato un religioso e poeta italiano venerato come beato dalla Chiesa cattolica. I critici lo considerano uno dei più importanti poeti italiani del Medioevo, certamente fra i più celebri autori di laudi religiose della letteratura italiana.
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Il suo vero nome era Jacopo de’ Benedetti, ed era nato a Todi intorno al 1230 da una nobile famiglia. Studiò giurisprudenza a Bologna, dopodiché intraprese la carriera notarile (secondo altre fonti fu invece procuratore legale) nella sua città.
Intorno al 1267 sposò una giovane nobildonna, Vanna di Bernardino di Guidone, della famiglia dei conti di Colmezzo. Questa prima fase della sua vita fu improntata al lusso e al divertimento: feste e banchetti si susseguivano senza sosta.
Ma nel 1268 accadde un fatto che mutò radicalmente la sua esistenza, orientandola verso un cambiamento profondo, verso la conversione. La leggenda narra che, a causa del crollo improvviso di un pavimento durante una festa che si stava svolgendo in un’aristocratica dimora di Todi, perse la vita la giovane moglie di Jacopone, che stava ballando.
Avvisato dell’accaduto, egli si precipitò sul luogo dell’incidente e rimase profondamente sconvolto non solo per la grave improvvisa perdita, ma anche per aver scoperto che la moglie, sotto le lussuose vesti, portava, all’insaputa di tutti, un cilicio (cintura ruvidissima e nodosa da portarsi sulle carni per penitenza).
Al di là della credibilità di tale racconto, tutti concordano nell’affermare che la conversione di Jacopone avvenne dopo la morte della giovane moglie. Egli infatti, abbandonato il lavoro e le persone che fino ad allora lo avevano circondato ed elargite tutte le sue ricchezze ai poveri, iniziò un cammino di pubblica penitenza e umiliazione.
Di questo periodo della sua vita si narrano vicende quasi incredibili, al limite della follia: pare che a un convivio giunse carponi e gravato di un basto d’asino, e che alle nozze del fratello si presentò nudo, spalmato di grasso e ricoperto di piume.
Per dieci anni visse nel rigore più severo; poi, nel 1278, chiese di entrare nell’Ordine dei Frati Minori, nel quale fu ammesso dopo qualche iniziale diffidenza. Fu frate laico nel convento di Pontanelli, presso Terni, e qui si immerse nello studio della filosofia e della teologia.
In questo periodo l’Ordine francescano stava attraversando un momento assai delicato, a causa dello scontro tra la fazione dei Conventuali, sostenuti da Papa Bonifacio VIII, che volevano attenuare il rigore della Regola di San Francesco, e gli Spirituali, che premevano perché venisse mantenuto intatto l’originario rigoroso spirito del Poverello.
Nel 1294 un gruppo di zelanti marchigiani chiese un riconoscimento ufficiale al neo-eletto Papa Pietro da Morrone, un ex-eremita salito al soglio pontificio col nome di Celestino V. Gli Spirituali lo vedevano come la guida che avrebbe dovuto purificare la Chiesa.
Jacopone si era schierato con l’ala rigorista e fu tra i firmatari della richiesta a Papa Celestino. Il pontefice risolse la questione collocando il gruppo in un nuovo Ordine. Ma il nuovo Papa si rivelò ben presto incapace di soddisfare le attese: privo di autonomia e inadeguato al ruolo, si dimise. Al suo posto fu nominato Bonifacio VIII, contro il quale si manifestò subito l’antipatia degli Spirituali francescani.
Bonifacio fu visto come una specie di usurpatore, e il fatto che avesse obbligato Celestino alla permanenza presso la corte papale e infine lo avesse rinchiuso nel castello di Fumone, in Ciociaria, sicuramente acuì queste antipatie.
Inoltre il nuovo papa, di carattere opposto al predecessore, ovvero molto abile e particolarmente sicuro di sé, revocò i provvedimenti presi da Celestino a favore dei dissidenti marchigiani. Jacopone, insieme ai cardinali Jacopo e Pietro Colonna, dichiarò priva di validità l’elezione di Bonifacio VIII.
Il Papa scomunicò i Colonna e assediò Palestrina, la loro sede. Qui si trovava anche il nostro Iacopo, che subì la stessa sorte dei due cardinali. Nel 1298, Jacopone fu incarcerato e condannato alla prigionia conventuale perpetua.
I sacrifici, anzi gli stenti della reclusione non erano per lui molesti; ma con l’avanzare dell’età cominciò a sentirne il peso; così si appellò al Papa, chiedendogli la revoca della scomunica. Era il 1300, l’anno del grande Giubileo, ma nonostante questo il pontefice non perdonò Jacopone, che dovette restare in cella tra malattie e sofferenze. Nel 1303 Bonifacio VIII morì e il suo successore, Benedetto XI, ritirò la scomunica e concesse la libertà a Jacopone, che, gravemente malato, si spense il 25 Dicembre del 1306.
Iacopone, il più famoso cittadino tuderte, è stato anche autore di numerose opere, tra cui spiccano le Laudi, componimenti tipici del periodo in cui egli visse. In esse traspare tutta la sua ricchissima esperienza religiosa, che si basa sull’analisi sincera e spassionata di se stesso, della propria condizione di credente e di peccatore.
Il motivo di fondo della sua produzione poetica è la contemplazione della miseria umana, che deve sollecitare il cristiano a praticare una forte disciplina ascetica. In ogni composizione è presente una struttura drammatica o dialogica. Propone costantemente il tema del contrasto tra anima e corpo, vita e morte, pietà e peccato.
Il discorso poetico è sempre inquieto, la lauda procede attraverso ripensamenti, ripiegamenti, interrogazioni, invettive. Nel suo complesso, l’opera di Jacopone è caratterizzata da una visione dolorosa della vita, forse anche in conseguenza di tutte le sventure che segnarono l’intera esistenza di questo significativo protagonista del Medioevo religioso e letterario italiano. (Fonte santiebati.it – Autore: Maurizio Schoepflin)
Porgi soccorso, o Vergine gentile,
a quest’alma tapina,
e non guardar ch’io sia terreno e vile
e tu, del ciel Regina,
o stella mattutina,
o tramontana del mondan viaggio,
porgi il tuo santo raggio
alla mia errante e debil navicella.
Ricevi, o Donna, nel tuo grembo bello
le mie lagrime amare,
tu sai che ti son prossimo a fratello,
e tu non puoi negare.
Vergine, non tardare
chè carità non suol patir dimora;
non aspettar quell’ora
che il lupo mangi la tua pecorella.
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