“Vivete, non vivacchiate”
citazione di Pier Giorgi Frassati fatta da Papa Francesco a Torino, 21 giugno 2015
Cresciuto in una famiglia alto borghese e poco unita, attenta più all’apparenza che all’essere, all’avere più che ai sentimenti, Pier Giorgio Frassati, che portò la tempesta nella sua casa (la santità è sempre “rivoluzionaria”), rappresenta il figlio dei nostri giorni: cresciuto nel benessere e nella superficiale attenzione ai valori della vita e ai principi evangelici. Invece di adeguarsi a quello stereotipo di esistenza sterile, lui si oppone e pur continuando, a differenza di un san Francesco d’Assisi, a vivere fra le pesanti mura domestiche, segue ugualmente un cammino di perfetta carità.
La sua breve, ma intensa esistenza, fu la realizzazione, nel quotidiano, dello straordinario nell’ordinario. Ogni suo atto era svolto con la volontà del missionario, dell’evangelizzatore che grida con gioia al mondo il prodigio della salvezza e molti specchiandosi nel suo sorriso e nei suoi occhi scrutavano la propria anima, non a caso alcuni suoi cari amici scelsero la strada del sacerdozio.
In occasione della sua beatificazione, avvenuta il 20 maggio 1990, il «Times» di Londra gli dedicò un articolo in prima pagina. Ma perché tanto interesse per questo ragazzo ricco, bello, intelligente, dalla vita normale, che non ha fondato né istituti, né scuole, né congregazioni religiose?
Pier Giorgio nasce a Torino il 6 aprile 1901. Cresce in una città di inizio secolo piena di ricordi storici e sabaudi; da poco è stata defraudata del suo titolo di capitale, qualche torinese si è addirittura suicidato per questo, eppure è piena di vitalità, di voglia di produrre e di pensare: da un lato troviamo l’industria, in particolare quella automobilistica e dall’altro intellettuali che fanno della città un laboratorio di idee. Nel campo della moda Torino ha poco da invidiare a Parigi e i teatri di prosa e di varietà sono numerosissimi. La Chiesa locale vanta di fronte al mondo la sua santità sociale (Giuseppe Cafasso, Giuseppe Benedetto Cottolengo, Giovanni Bosco, Francesco Faà di Bruno, i marchesi di Barolo…), ma possiede anche personalità del suo tempo cariche di energia evangelica come Giuseppe Allamano, fondatore delle Missioni della Consolata, Adolfo Barberis, fondatore del Famulato cristiano (per la moralizzazione del servizio domestico).
In questa Torino dove santità, anticlericalismo e dure lotte operaie convivono, si trasferiscono dal biellese i coniugi Alfredo Frassati e Adelaide Ametis. Il padre di Pier Giorgio è proprietario del quotidiano «La Stampa», nonché stretto amico del primo ministro Giovanni Giolitti. Nel 1913 diventerà senatore e più tardi ambasciatore a Berlino. I gravosi impegni gli impediscono di seguire l’educazione di Pier Giorgio e di Luciana, nata nel 1902. Spetta alla madre l’educazione dei figli. Adelaide è pittrice, legata ai precetti religiosi, senza troppi approfondimenti spirituali. Pier Giorgio matura personalmente la sua sete di Dio e diventa autodidatta del Vangelo.
Disse nel giorno della beatificazione Giovanni Paolo II, grande ammiratore di Pier Giorgio, che lo definì il ragazzo delle otto beatitudini: «Ad uno sguardo superficiale, lo stile di Pier Giorgio Frassati, un giovane moderno pieno di vita, non presenta granché di straordinario… In lui la fede e gli avvenimenti quotidiani si fondono armonicamente, tanto che l’adesione al Vangelo si traduce in attenzione ai poveri e ai bisognosi».
L’entrata all’Istituto Sociale dei padri Gesuiti è un momento decisivo. Padre Lombardi gli consiglia la comunione quotidiana, con la grande disapprovazione materna, e d’ora in poi l’eucaristia sarà il centro della sua vita. A 17 anni entra a far parte della Conferenza di San Vincenzo, assumendo così un impegno costante di carità. «Lui, che era così allegrone, quando parlava di cose spirituali, diventava un altro. Tanto è vero che quando veniva in camera mia, era come se entrasse il sole!», racconterà più tardi padre Lombardi.
In casa Pier Giorgio non viene compreso: non si capisce perché preferisca recitare il rosario quotidianamente in una casa dove non si prega, perché non ambisca ad occupare un posto di rilievo nella società come invece suo padre ha sempre fatto raggiungendo il successo. È il giovane che invece di studiare, come i suoi genitori vorrebbero per raggiungere presto la laurea in ingegneria, «bighellona» con gli amici della San Vincenzo, della Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana), del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, nel convento dei padri domenicani, nelle sacrestie delle chiese per servire messa, «perdendo» continuamente tempo prezioso e invece di pensare ai doveri di un rampollo del suo rango si occupa di preghiere, di celebrazioni eucaristiche, di letture spirituali e come non bastasse alla legazione italiana di Berlino, dove suo padre è ambasciatore, ruba i fiori nelle sale di rappresentanza per portarli sulle tombe della povera gente.
Scrive suo padre nel febbraio del 1922: «Agendo sempre senza riflessione nelle cose che per te dovrebbero essere importantissime (come, nel caso speciale, era il non dimenticare il libro che ti doveva servire per il prossimo esame) diventerai un uomo inutile agli altri e a te stesso». Destinato a ben altri orizzonti rispetto a quelli della scalata sociale, Pier Giorgio, «l’uomo inutile», ritagliava spazi di eternità. E ancora nel 1922 il beato legge duri biasimi paterni: «Bisogna che ti persuada, caro Giorgio, che la vita bisogna prenderla sul serio, e che così come tu fai, non va né per te, né per i tuoi, i quali ti vogliono bene e sono molto amareggiati per tutte queste cose che succedono troppo spesso e si ripetono sempre monotone e dolorose. Ho poca speranza che tu cambi, eppure sarebbe strettamente necessario cambiare subito: prendere le cose con metodo, pensare sempre con serietà a quello che devi fare, avere un po’di perseveranza. Non vivere alla giornata, senza pensiero come uno scervellato qualunque. Se vuoi un po’ di bene ai tuoi devi maturare. Io sono molto, ma molto di cattivo umore».
Per un uomo d’azione e di pervicace pragmatismo come il senatore Frassati è incomprensibile un figlio come il suo, votato alla preghiera, alla trascendenza, alla lotta per le idee di giustizia in nome del Vangelo. Padre e figlio avevano vite completamente diverse, ma entrambe frenetiche, l’una indirizzata al lavoro e all’amministrazione del patrimonio familiare, l’altra per operare nel nome di Dio con amore e carità. Nel sangue scorreva sangue biellese e come il padre in Pier Giorgio spiccavano dignità, intraprendenza, coerenza, eticità, schiettezza, rettitudine, coerenza e caparbietà.
Già negli anni della giovinezza Alfredo era attraversato da moti di inquietudine spirituale: continuamente spinto a nuovi traguardi di successo, ma costantemente insoddisfatto a causa di una fede soffocata che sarà liberata lentamente, con un personale e sorprendente avvicinamento agli uomini di Chiesa a partire dal 4 luglio 1925 con la tragica morte del figlio.
Pier Giorgio s’innamora delle lettere di san Paolo, le legge e le rilegge anche per strada o sul tram e a 21 anni entra nel Terz’ordine di San Domenico. Un posto tutto particolare nella sua vita lo occupa l’amicizia. Negli anni del Politecnico (Ingegneria meccanica con specializzazione mineraria) dà vita ad un gruppo di ragazzi e ragazze che vivono con serenità e rispetto il valore dell’amicizia: «La Società dei tipi loschi». Ogni membro, «lestofanti» e «lestofantesse», prendono un nome, Pier Giorgio sceglie «Robespierre». Voglia di vivere e spirito goliardico aleggia fra gli amici di Frassati per poter «servire Dio in perfetta letizia». L’impegno sociale e politico, contro il Regime fascista, lo schiera tra le fila del Partito Popolare italiano, fondato da don Luigi Sturzo nel 1919. Il suo impegno politico e sociale fu una diretta conseguenza del suo modo di sentirsi cristiano: non gli era sufficiente aiutare i poveri, andare nelle loro misere soffitte, nei tuguri dove la malattia e la fame si confondevano nel dolore, non gli bastava portare ai diseredati una parola di conforto, carbone, viveri, medicinali e denari, voleva dare una soluzione a quei problemi di miseria e di abbandono e la politica gli parve la via idonea per fare pressione là dove si decideva la giustizia. Durissima fu la sua lotta contro il fascismo, una realtà che respirò anche a casa sua: il padre venne anche perseguitato per la battaglia, condotta sulle colonne del suo giornale, contro il Regime.
Benché molto legato alla sorella Luciana, Pier Giorgio scelse tutt’altra strada: lei il mondo prestigioso e affascinante della diplomazia; lui i poveri e gli infelici. Luciana, l’unica persona di casa con la quale poteva confidarsi, scriverà anni dopo di aver difeso spesso il candore del fratello dalle incomprensioni del mondo e della sua stessa famiglia, dove il rapporto fra madre e padre si era andato frantumando di anno in anno fino a sgretolarsi.
Le conferenze di San Vincenzo furono il massimo campo di azione per Pier Giorgio: fu in esse che poté esprimere concretamente la sua carità per i poveri, gli orfani, i senza lavoro, i senza tetto.
A quel tempo molti ragazzi e ragazze si recavano nelle soffitte della Torino povera a portare la loro assistenza. Ciò che distingueva Pier Giorgio dagli altri era il modo e lo status a cui apparteneva: il figlio del senatore del Regno si abbassava ad avvicinare gli umili, gli ultimi e ciò si compiva non come atto paternalistico dall’alto in basso, ma per condivisione e partecipazione viva e attiva ai drammi del sociale.
Sollecitava spesso i suoi compagni d’Università e dell’Azione Cattolica ad iscriversi alla San Vincenzo. Diceva loro: «La San Vincenzo è un’istituzione semplice adatta agli studenti perché non implica impegni, unico e solo quello di trovarsi un giorno della settimana in una determinata sede e poi visitare due o tre famiglie ogni settimana. Vedrete, vi richiederà poco tempo, eppure quanto bene possiamo fare a noi stessi… L’assistere quotidianamente alla fede con cui le famiglie spesso sopportano i più atroci dolori, il sacrificio perenne che essi fanno e che tutto questo fanno per l’Amore di Dio ci fa tante volte rivolgere questa domanda: “Io che ho avuto da Dio tante cose sono sempre rimasto così neghittoso, così cattivo, mentre loro, che non sono stati privilegiati come me, sono infinitamente migliori di me…”».
Alcuni amici lo chiamavano «il facchino degli sfruttati» e certi inventarono per lui una sigla speciale: «FIT», «Frassati Impresa Trasporti». Nelle soffitte del centro, ma anche in povere case della periferia, portava infatti di tutto: generi alimentari, legna, carbone, vestiti, mobili…
Amante della montagna, Pier Giorgio trova nell’alpinismo la manifestazione palpabile del suo cammino ascetico «verso l’alto», verso la fede più pura. Scriveva nel 1925 all’amico Bonini: «Vivere senza una fede, senza un patrimonio da difendere, senza sostenere in una lotta continua la Verità, non è vivere, ma vivacchiare».
Crede nell’associazionismo cattolico e nel 1922 entra nell’Azione cattolica il cui motto è: preghiera, azione, sacrificio.
Pur non ottenendo brillanti risultati universitari, Pier Giorgio è vicino al traguardo della laurea e con essa la realizzazione del suo grande desiderio: lavorare con i minatori per condividere il loro lavoro duro e pesante. Ma tutti i suoi sogni si frantumano uno ad uno. È confuso, soprattutto perché non comprende il disegno di Dio su di lui. Aveva pensato di farsi sacerdote, ma, oltre alla famiglia contraria a quell’idea «malsana», in Germania, quando di tanto in tanto raggiungeva il padre ambasciatore a Berlino (1921-1922), lui stesso era mutato perché aveva conosciuto il padre domenicano Karl Sonnenschein, chiamato il «san Francesco tedesco», pastore dei cattolici italiani residenti a Berlino e guida spirituale degli studenti. Il religioso, noto per la sua grande umiltà e grande carità, instaurò un ottimo rapporto di stima e simpatia con il giovane torinese, invitandolo a partecipare alle riunioni dei circoli misti, composti cioè sia da studenti sia da operai. Pier Giorgio avrebbe voluto imitare, in qualità di sacerdote, proprio padre Sonneschein, ma comprese che in Italia un apostolato sacerdotale di questo tipo non sarebbe stato accolto.
Nell’ultimo anno della sua vita Pier Giorgio s’innamorò di una ragazza, Laura Hidalgo (1898-1976), rimasta orfana giovane, laureata in matematica e considerata da casa Frassati socialmente non all’altezza del nome di Pier Giorgio. Quell’esperienza segnò fortemente il beato, non chiamato al matrimonio, ma al laicato cristiano fra la gente e i poveri.
«Sei un bigotto?», gli chiesero un giorno in Università, così come venivano scherniti i cattolici dai massonico-liberali, dai social-comunisti e dai fascisti. La sua risposta fu netta: «No. Sono rimasto cristiano».
Nel gennaio del 1925 Luciana sposa il diplomatico polacco Jan Gawronski. Un durissimo colpo per Pier Giorgio che resta completamente solo nella casa delle discordie. A giugno di quell’anno il padre gli domanda di entrare ne «La Stampa» e dunque di rinunciare alle sue aspirazioni professionali, lavorare fra i minatori. Il senatore, che provava sempre una certa soggezione di fronte al figlio, non ebbe il coraggio di parlargli direttamente, così Alfredo Frassati chiese all’amico Giuseppe Cassone, cronista de La Stampa, di farlo al suo posto. Lo stesso Cassone testimonierà: «Un giorno che egli [Pier Giorgio] era venuto a trovarmi in ufficio colsi l’occasione. Gli parlai come si parla a un figlio assennato e caro. Mi ascoltò in silenzio puntandomi, scrutatori e sereni, quei suoi begli occhi di fanciullo, poi mi domandò: “Cassone, crede proprio che venendo io qui a La Stampa il babbo sarà contento?”. Dissi di sì. Egli non esitò più: “Dica al babbo che accetto”. Lo considerai un grande sacrificio per lui, e commosso, l’abbracciai».
La sua proverbiale allegria lo abbandona nell’ultima parte della sua esistenza, quando appare quasi presago della fine prematura; anche il suo aspetto fisico muta e i lineamenti perdono i tratti adolescenziali. Viene meno dunque quel suo spirito perennemente sereno a motivo di una serie di condizionamenti che sembrano soffocarlo: l’amore per Laura Hidalgo, la volontà paterna di integrarlo nell’amministrazione de La Stampa, il timore dolorosissimo di una possibile separazione fra gli amati genitori, la cui convivenza è sempre più difficile. Un giorno, ad un amico che gli aveva domandato che cosa avrebbe voluto fare dopo gli studi, lui rispose: «Non lo so: sacerdote no, perché è una missione troppo grande e non ne sono degno; il matrimonio no. L’unica soluzione sarebbe quella che il Signore mi prendesse con sé».
È tempo ormai «di raccogliere ciò che ho seminato». La morte lo rapisce, rapidissima. Viene colpito dalla poliomielite fulminante. Sei giorni appena per corrodere quel fisico sano e forte di 24 anni. E ancora una volta la famiglia non lo comprende: tutti sono attenti all’agonia dell’anziana nonna Ametis, non accorgendosi della gravità del suo male. Non un lamento uscirà dalla sua bocca, non una richiesta. «Il giorno della mia morte sarà il più bello della mia vita» aveva detto ad un amico. Quel giorno arrivò il 4 luglio 1925.
Le grandi incomprensioni svaniscono: Alfredo Frassati è di fronte alla bara del figlio “ribelle”, alla quale rendono omaggio, con suo sconcerto, migliaia e migliaia di persone e di poveri della Torino semplice e umile. Tutti presenti non per i meriti del nome Frassati, ma per Pier Giorgio, solo per ciò che lui e lui solo ha rappresentato e qualcuno scoprirà dopo che quel giovane pronto a soccorrere tutti era il figlio del senatore e direttore de La Stampa. Proprio da qui Alfredo inizia a scoprire l’identità di Pier Giorgio, la sua grandezza umana e spirituale. E il lungo tempo della prova condurrà lui, non credente, alla conversione.
Quattro giorni dopo la morte del figlio, Alfredo scrive a sua madre, Giuseppina Frassati, una lettera colma di strazio, un tormento che perdurerà ancora 36 anni, fino alla morte:
«Giorgio era un santo, oggi lo riconoscono tutti… L’impressione per la sua morte qui a Torino è stata pari alla sua bontà. Mai si è visto una folla unanime cantare le lodi di un morto. Ma il povero Pier Giorgio non c’è più e la mia vita è finita.
Avevo troppo nel mondo: fino a 57 anni ho avuto tutto. Ora sono il più povero dei poveri. Mendico nel mondo, nessuno può darmi anche la minima parte di quello che mi fu tolto.
Ti bacio, cara mamma, auguriamoci di congiungerci presto con lui, il tuo Alfredo».
Pier Giorgio, incompreso da vivo, era stato fonte di tante preoccupazioni e insofferenze ed ora, da morto, è causa di un disperato e inconsolabile rimpianto.
La strana ribellione di Pier Giorgio, che aveva continuato a vivere nella casa paterna, perché amava infinitamente la sua famiglia, ma che aveva scelto comunque e liberamente la sua strada di fede e di impegno sociale, acquista ora una nuova luce per il senatore ed egli ammira, e ne è allo stesso tempo orgoglioso, della coerenza di idee: Pier Giorgio agiva come credeva, parlava come sentiva, e faceva come parlava.
La sua morte aprì dunque gli occhi al padre e alla madre, la quale si occupò di raccogliere le prime testimonianze sul figlio e collaborò con il salesiano don Antonio Cojazzi, che era stato insegnante di Pier Giorgio, per la stesura della prima biografia sul beato, pubblicata nel 1928.
Il 16 luglio arrivò a «La Stampa», preludio della sentenza di morte, il decreto di diffida dove erano elencati i «peccati mortali» del quotidiano che non si allineava con il governo fascista. Alfredo Frassati in un mese perse figlio e giornale, distrutto lasciò Torino, si rifugiò dalla figlia all’Aja e da quella città scrisse una lettera alla cognata Elena (25 agosto 1925) dove rivela un suo impressionante presentimento nel giorno delle nozze di Luciana:
«Cara Elena,
hai ragione: non possiamo più farci auguri, non solo, ma non lo dobbiamo. La vita è finita realmente: ogni giorno che passa vedo più chiaramente l’abisso: mi parevano meno grevi i primi giorni. L’ho sempre nel cuore: nessuno ha compreso cos’era Pier Giorgio per me: il mio orgoglio, la mia passione: vedevo in lui in realtà tutte le belle qualità che avevo sognato di avere io, che non ho avute, ma vedevo anche nel suo carattere intransigente e buono, il mio carattere intransigente e non cattivo: vedevo nell’affetto suo per gli umili, il mio affetto: mi pareva che in lui si fosse moltiplicato per miliardi quel po’ di non cattivo che c’è in me.
Da qualche tempo a questa parte non piantavo una pianta che non fosse per lui, mi pareva che qualche cosa mi dicesse che dovevo separarmi da lui, ma sentivo che ero io che dovevo andarmene.
Non ti ho mai detto la visione che ho avuto all’Arcivescovado il giorno delle nozze di Luciana? Chiedilo ad Alda. Quando sono entrato nella sala dov’era l’altare, invece di esso ho visto una bara: una bara che doveva distruggere tutto, cosa non so, non vidi, non sentii, ma tutto, capisci. E per la prima volta in vita mia mi sentii venir meno; per un secondo, forse meno, ma la coscienza la perdei: e non mi avvenne nemmeno quando Giorgetto morì, nemmeno quando seguii la sua bara, nemmeno quando la terra lo inghiottì. Cosa strana nevvero, mia cara Elena? Incredibile se non l’avessi detto prima. La bara era la sua: il tutto che doveva spazzare era la sua morte e il matrimonio; soli, soli, soli. Addio mia cara Elena. Voglimi bene, perdona, sopporta i miei difetti; siamo almeno uniti di fronte alla sventura. Addio, addio».
È proprio di quell’epoca la trascrizione che Alfredo compie di una lettera inviata da Pier Giorgio alla sorella il 14 febbraio di quel luttuoso 1925: «Tu mi domandi se sono allegro; e come non potrei esserlo? Finché la fede mi darà forza sempre allegro! Ogni cattolico non può non essere allegro: la tristezza deve essere bandita dagli animi cattolici; il dolore non è la tristezza, che è una malattia peggiore di ogni altra. Questa malattia è quasi sempre prodotta dall’ateismo, ma lo scopo per cui noi siamo creati ci addita la via, seminata sia pure di molte spine, ma non una triste via: essa è allegria anche attraverso i dolori».
Dal 29 settembre al 2 novembre 1925 «La Stampa» venne sequestrata e furono interrotte le pubblicazioni. Frassati fu costretto a ritirarsi dalla direzione della testata e la Fiat ne divenne proprietaria.
«Così per oltre un ventennio», scriverà anni dopo il senatore, «”La Stampa” si asservì al fascismo, ma la Fiat fece sempre ottimi affari noncurante che il fascismo avesse soppresso ogni libertà ed avere violato l’intero Statuto albertino, il capolavoro del nostro Risorgimento, e lo sbocco logico dell’opera eroica di pensatori e di soldati.
Il giornale appoggiò incondizionatamente il fascismo, e non solo quello della prima maniera, che aveva serbata ancora un’ombra di costituzionalità, ma anche quando il potere venne usurpato totalmente da Mussolini, come fondatore e capo della repubblica di Salò, in guerra contro il potere legittimo, rappresentato dal Re».
Dopo il funerale di Pier Giorgio ebbe inizio un’infausta passerella di sciacalli, i quali si presentavano come presunti amici di Pier Giorgio. Approfittando del dolore dei genitori molti si accaparravano oggetti appartenuti al beato. Altri si recavano dal senatore per chiedere aiuti e favori e alcuni di loro iniziarono magnifiche carriere. Il gruppo degli amici si dilatava a dismisura e padre e madre, disperati nella loro sciagura, non sapevano discernere e valutare essendo anche stati sempre all’oscuro delle frequentazioni di Pier Giorgio. Bastava essere stati conoscenti di Pier Giorgio per ottenere molto, anche in denaro.
Un giorno di qualche tempo prima, Pier Giorgio aveva bussato alla porta degli istituti di assistenza di Torino per trovare ospitalità a due bambini bisognosi di soccorso. Provò anche al Cottolengo, ma senza risultato, perciò rivelò all’amico Giovanni Maria Bertini: «Non appena potrò disporre dei mezzi di mio padre, per prima cosa farò costruire un grande edificio per bambini che ne avranno bisogno». Sarà suo padre a far erigere un grande padiglione (chiamato ancora oggi «Pier Giorgio Frassati») per bambini privi di assistenza nella Piccola Casa della divina Provvidenza come aveva desiderato il figlio.
«La vita è dolore e tristezza. Ora posso dire con Brunilde: “Alles ist num mir klar”(«Ora tutto mi è chiaro»)» . Scrive il senatore in una lettera all’amico Spartaco Fazzari nel 1926. Parole forti quelle di Alfredo Frassati che cambia vita e accantona i desideri di potere, le ambizioni di profitti sempre maggiori e guarda agli altri con occhio partecipe; si apre alla carità, sulla scia del figlio e al suo «Giorgetto» fa risalire le opere benefiche.
Frassati trascorre sempre la stagione estiva a Pollone, in provincia di Biella e la sua meta è una sola: il cimitero, dove è sepolto Pier Giorgio. L’incubo lo condurrà alla conversione dell’anima. Nel 1927 scrive ancora a Spartaco Fazzani: «Per mia enorme disgrazia non credo che ci sia una seconda vita. Ma Lui ci ha creduto: così è come se realmente ci sia… Lo ricordi quel suo sorriso? Se sapessi, caro Spartaco, come è ancora oggi (viva) la straziata nostalgia di Lui! E vuoi credere che mentre ti scrivo queste due righe le lagrime scendono ininterrotte. E ne ho versate tante!…». Alfredo lascia perciò in eredità un prezioso patrimonio di sentimenti, dove il dolore cocente è messo a nudo e non lascia più spazio ai materialismi.
Di fronte a noi un cuore di padre si spappola, anno dopo anno, per ricomporsi nelle mani del figlio:
«Carissima Luciana,
tutti i giorni sono tristi: tutti i giorni sono pieni di lagrime: ma hai ragione tu; questi giorni sono i più tristi fra i tristi: i santi, i morti: il giorno tristissimo della sua morte: oggi. Veniamo in questo momento dalla parrocchia. Abbiamo fatto la strada che egli faceva ogni mattina, così pieno di salute, così sereno, così credente. Mi era penoso fino allo spasimo camminare dove egli ha camminato. Com’è doloroso vivere ormai, Luciana. Io prego Iddio, e tu pregalo ferventemente che fra tutti i dolori della vita uno solo ti sia risparmiato: quello di sopravvivere ai tuoi figli» (4 novembre 1926).
Uomo travolgente e attivissimo, Alfredo si sente impazzire in quel tunnel di solitudine angosciante e per resistere al «disfacimento», cerca lavoro, non chiede e non desidera compensi, se ci saranno andranno ad accrescere le larghe somme che già provvede a destinare in beneficenza. È così che il senatore Frassati nel 1930 assume la presidenza della Società Italgas e ricoprirà l’incarico fino all’età di 90 anni e, oltre ad essere ambasciatore onorario, sarà anche membro dell’Assemblea costituente (25 giugno 1946-22 dicembre 1947), nonché senatore di diritto nominato con decreto il 22 aprile 1948.
Nel 1959 la Fuci tenne il suo congresso a Torino. Si aprì il 1° settembre, con la prolusione di monsignor Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano (1958-1963), già chiamato a far parte del Collegio cardinalizio dal beato papa Giovanni XXIII, e che Frassati aveva conosciuto a Roma come Sostituto della segreteria di Stato, accompagnandolo di tanto in tanto anche in passeggiate campestri. L’antico assistente della Fuci iniziò il suo discorso con queste parole: «C’è qualcuno qui ch’io vedo e non si vede… eppure è presente», con l’occhio cercava Pier Giorgio «il volto d’uno studente bello e vigoroso, di cui in questi anni la gioventù nostra ha studiato i lineamenti e meditato la virile bontà, un modello di fratello ideale». Presentò con grande trasporto la figura di Pier Giorgio Frassati che non conobbe personalmente, ma di lui gli erano giunti i forti echi di un’esperienza di vita svolta tutta in salita.
Montini, quel giorno, non si fermò a ricordare pubblicamente Pier Giorgio, andò, di persona, a salutare il padre recandosi alla sede dell’Italgas a dimostrazione dell’interesse vivo e vero per il Giovane delle otto beatitudini e per il dolore con il quale era stato segnato a fuoco Alfredo Frassati. Quella illuminata e significativa visita fu balsamo benefico per il senatore, il quale provava una sconfinata ammirazione per il cardinale Montini. Il colloquio durò a lungo e il commiato fu commovente ed affettuoso. Emozionatissimo e straordinariamente contento Frassati non tentò neppure di nascondere le lacrime ed era convinto che il cardinale Giovanni Battista Montini un giorno sarebbe diventato Pontefice.
Il percorso di fede di Alfredo Frassati fu inesorabile e nell’archivio arcivescovile di Milano, in un dossier dedicato alla corrispondenza del cardinale Montini con i laici, è custodito un carteggio che conferma tale percorso e l’avvicinamento del senatore Alfredo Frassati alla Chiesa.
Già nel Natale 1957, Alfredo, vedovo dal 18 giugno 1949 (Adelaide Frassati morì cinque anni dopo la sorella Elena Ametis) scriveva con cuore aperto:
«Eccellenza,
Accolga da un umilissimo suo ammiratore gli auguri più caldi per le prossime feste. Seguo con gioia il suo luminoso cammino e mille volte ho progettato di dirle a voce tutti questi miei sentimenti. Ma sono, come V.E. sa, un solitario… Ma un giorno vincerò questa paura… e verrò a baciarle la mano, portando tutti gli auguri.
Mi ricordi qualche volta nelle sue preghiere e mi abbia sempre Suo umilissimo servitore Alfredo Frassati».
Giunse la calorosa risposta dell’arcivescovo:
«Cara Eccellenza!
Il suo biglietto mi commuove, perché mi dice un ricordo che mi fa molto piacere e che ricambio con affettuosa devozione.
Così Le presento i miei auguri più sinceri e prego Dio per Lei che li renda validi e forieri d’ogni miglior bene.
RivederLa farebbe anche a me molto piacere, ma penso che ora non Le sia facile viaggiare. Sappia, ad ogni modo, che Le sono vicino spiritualmente nel ricordo del Suo e nostro Pier Giorgio e nel desiderio della Sua prosperità e della Sua pace.
Mi consenta di darLe come ad Amico venerato e stimato la mia benedizione. G.B. Montini Arcivescovo ».
Il futuro Paolo VI, che fu sempre molto attento al recupero spirituale delle anime con un interesse tutto speciale per intellettuali, artisti e sacerdoti, aveva compreso che esisteva nel senatore un terreno di fede coltivabile e fertile.
La profonda devozione di Alfredo Frassati per Montini, protagonista della sorprendente e meravigliosa conversione, maturata lentamente alla luce del figlio, lo accompagnò fino alla morte che giunse serena il 21 maggio 1961, giorno di Pentecoste. Intorno alla sua salma non ci saranno, per sua volontà, fiori e fra le mani inanimate vorrà il Crocifisso e una fotografia del suo diletto Pier Giorgio, una di quelle che Alfredo non era più riuscito a guardare, raccomandando ai suoi eredi che non fossero presenti ritratti del figlio quando andava loro a far visita, così come non aveva voluto che i suoi nipoti (sette) portassero come primo nome quello del figlio: Pier Giorgio era uno, lui e solo lui.
La notizia della morte non fu comunicata ufficialmente perché il senatore aveva manifestato la volontà che fosse resa pubblica a funerali avvenuti.
Dopo un lungo travaglio spirituale, nella luce della fede, Alfredo Frassati, giunto all’approdo della grazia, si congedò dal mondo in pace con se stesso perché in pace con Dio. Questo fu, a nostro giudizio, il primo miracolo del beato Pier Giorgio Frassati.
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