Francesco Spinelli nasce a Milano il 14 aprile 1853. I suoi genitori, Bartolomeo Spinelli ed Emilia Cagliaroli, erano bergamaschi d’origine, precisamente di Verdello, e lavoravano al servizio del marchese Emilio Stanga: rispettivamente, erano maggiordomo e cameriera.
Francesco, che era il terzogenito, fu battezzato nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano il 15 aprile. Gli furono dati i nomi di Francesco, Giovanni e Ildefonso, ma per tutti i familiari fu sempre Cecchino.
A causa delle insurrezioni popolari dovute al ritorno del dominio austriaco su Milano, i genitori pensarono di mandare Francesco a Verdello, perché potesse crescere al sicuro. Per i successivi tre anni fu quindi allevato da Giovanna, una zia della madre, cominciando a sviluppare un carattere riflessivo e un’attenta capacità di osservazione. In particolare, si sentiva attratto dalle celebrazioni in chiesa e dai gesti del sacerdote all’altare.
Tornato dai genitori, che si erano trasferiti insieme ai marchesi Stanga a Vergo, nei pressi di Besana Brianza, Cecchino ricevette da loro un’educazione improntata ai principi religiosi. In particolare, seguiva la madre nelle sue visite ai poveri e ai malati.
A causa dei successivi spostamenti al seguito degli Stanga, i genitori scelsero d’iscrivere Francesco al collegio tenuto da don Alessandro Gallina a Cremona, perché vi frequentasse la scuola elementare. Fu un allievo eccellente, sia nel profitto che nelle valutazioni degli insegnanti. A otto anni, il 19 maggio 1861, riceve la Cresima nella parrocchia di Sant’Agata a Cremona.
Rientrato in famiglia, Francesco accettò, pur avendo appena terminato le elementari ed essendo in vacanza, di prendere lezioni di latino da don Maurizio dell’Acqua, parroco di Agliate. Era infatti previsto, per il settembre successivo, il suo ingresso nel Collegio Sant’Alessandro di Bergamo come studente del primo anno del ginnasio (corrispondente al primo anno delle scuole medie). La scelta era motivata anche dal fatto che uno zio materno, don Pietro Cagliaroli, era vicario della parrocchia di Sant’Alessandro in Colonna.
Anche a Bergamo, Francesco fu uno studente attento, capace di buone relazioni con i compagni. Nello stesso periodo, si preparò alla Prima Comunione.
A causa di una caduta dal letto, durante gli anni del ginnasio, Francesco subì una lesione della colonna vertebrale. Fu accolto in casa dello zio don Pietro, ma per le vacanze tornò a Vergo, munito di stampelle.
Un giorno, mentre, come suo solito, pregava davanti alla statua della Madonna de La Salette, esposta nella parrocchiale di Vergo, si sentì spinto a lasciar cadere i suoi sostegni: sotto gli occhi dei presenti, ricominciò a camminare.
Da allora cominciò a pensare ancora più seriamente a come ringraziare Dio e la Madonna per il dono ricevuto. Superati gli esami di maturità, Francesco comunicò ai genitori di voler diventare sacerdote. Entrambi acconsentirono, sebbene il padre, notando la propensione del ragazzo verso i malati, credesse che avrebbe voluto fare il medico.
Così, nell’autunno 1871, Francesco è ammesso al primo anno di Teologia nel Seminario diocesano di Bergamo, come alunno esterno: era infatti nuovamente ospite dello zio sacerdote, anche per via delle sue condizioni economiche. I superiori avevano grande stima di lui, mentre i compagni, a volte per scherzo, gli davano la qualifica di “santo”.
Nel tempo libero dagli studi, cominciò ad aiutare un sacerdote che aveva conosciuto a Sant’Alessandro in Colonna. Si trattava di don Luigi Maria Palazzolo (beatificato nel 1963), che nel territorio della parrocchia aveva istituito prima delle scuole gratuite, poi un oratorio per i ragazzi e i giovani poveri e, per le ragazze, una sezione della Pia Opera di Santa Dorotea. Il 22 maggio 1869 aveva infine fondato la congregazione delle Suore delle Poverelle, per l’educazione dei bambini poveri.
Francesco fu uno degli insegnanti delle scuole di don Palazzolo, del quale ammirava la carità con cui seppe rispondere all’analfabetismo, uno dei maggiori problemi della Bergamo del tempo e dell’Italia post-unitaria.
L’ordinazione sacerdotale si svolse il 17 ottobre 1875 nella chiesa di Gavarno Vescovado, dove monsignor Pierluigi Speranza, vescovo di Bergamo, era temporaneamente a riposo.
Tuttavia, nel corso del rito, monsignor Speranza stesso girò due pagine insieme del libro pontificale e proseguì: senza accorgersene, aveva omesso l’imposizione delle mani.
Al termine della cerimonia, il vescovo si accorse dell’errore e decise d’interpellare la Santa Sede circa la validità dell’ordinazione. La risposta fu che avrebbe dovuto ripetere il rito in forma privata. Così, dopo la seconda celebrazione, dichiarò al giovane, ormai sacerdote: «Voi avete adesso il dovere di essere doppiamente buono, perché vi ho ordinato due volte».
Don Francesco riprese quindi la sua attività al fianco di don Palazzolo, dal quale aveva imparato non solo la carità tramite l’istruzione, ma anche la capacità di far stare allegri senza pericoli i ragazzi, mediante il teatro dei burattini.
Nei giorni delle feste natalizie del 1875, si recò a Roma per il Giubileo. Visitò gran parte delle chiese della città, ormai capitale d’Italia, e sostò a lungo nella basilica di Santa Maria Maggiore, dov’è venerata la “Sacra Culla”, ovvero un reliquiario dove si ritiene siano custoditi i resti della mangiatoia di Gesù bambino.
Quello che gli accadde durante una delle sue meditazioni fu da lui stesso accennato in questi termini: “Mi sono inginocchiato, piansi, pregai e, giovane sacerdote allora, sognai uno stuolo di vergini che avrebbero adorato Gesù in Sacramento”.
Tornato a Bergamo, fu incaricato di continuare a collaborare con don Palazzolo e con lo zio, diventando poi anche insegnante nel Collegio Sant’Alessandro. Intanto, però, non dimenticava l’ispirazione che sentiva di aver ricevuto. Divenne anche molto richiesto come predicatore di ritiri, confessore e direttore spirituale.
Proprio durante una sua predicazione presso le Suore di Maria Bambina a Bergamo, il suo fervore colpì particolarmente una giovane cameriera, Caterina Comensoli. Si era già consacrata a Dio nella Compagnia di Sant’Angela Merici, ma desiderava fondare una congregazione dedita all’Adorazione Eucaristica perpetua.
Nell’inverno 1882, si incontrarono e nel corso dei loro colloqui, capirono di avere un progetto comune, che esposero prontamente a Monsignor Camillo Guindani, successore di monsignor Speranza.
Don Francesco, dal canto suo, andava delineando il fine specifico del nuovo istituto religioso: «Adorare perpetuamente il SS. Sacramento, fonte di forze per queste opere ed in riparazione delle offese che a Dio si fanno in questi tempi», ma anche «raccogliere tutti quelli che non sono accettati negli altri ospedali e case di salute, specialmente i poveri ».
Venerdì 15 dicembre 1882, in una casa presa in affitto in via Cavette 8 a Bergamo (oggi via Sant’Antonino), iniziava ufficialmente la vita delle Suore Adoratrici del SS. Sacramento. Con don Francesco erano presenti le sorelle Caterina e Bartolomea Comensoli, insieme a Maria Pandini. L’atto fondativo fu un’ora di adorazione davanti a un’immagine del Sacro Cuore di Gesù, dato che, per il momento, non era stato concesso di poter tenere il Santissimo Sacramento in casa.
Il 21 giugno 1883 si svolse la prima Adorazione Eucaristica pubblica, mentre il 15 dicembre, a un anno dalla fondazione, furono celebrate le prime sei vestizioni. Caterina Comensoli, da quel momento in poi, divenne suor Geltrude del SS. Sacramento.
La prima casa filiale fu aperta nel giugno 1885, per curare le giovani operaie della filanda Monzini Dell’Era. Seguirono quelle di Rivolta d’Adda, Lenno, Alzano Maggiore, Verdello e Lodi. A quattro anni dalla fondazione, le suore erano un centinaio e le ragazze assistite più di duecento.
Don Francesco fu incoraggiato dal segretario del vescovo di Bergamo, monsignor Andrea Mancini, ad acquistare alcune proprietà e fattorie, così da impiantare una filiera completa per la produzione di paramenti e arredi sacri.
Confidando nell’appoggio economico da parte della Cassa Ecclesiastica della Curia bergamasca, accettò l’impresa. All’improvviso, mentre i debiti aumentavano e le offerte erano insufficienti per i pagamenti, anche la Cassa Ecclesiastica ritirò le garanzie.
Don Francesco, preoccupato per la sopravvivenza dell’istituto religioso, convocò i creditori, ma essi l’accusarono di aver abusato della loro fiducia. In realtà, alcune delle compravendite attribuite a lui erano in realtà state attuate da coloro che, mentre monsignor Guindani era malato, governavano la diocesi. Infine, il 18 gennaio 1889, dovette presentare istanza di fallimento alla Camera di Commercio di Bergamo.
La sera del 25 gennaio 1899, don Francesco è obbligato a lasciare la casa madre di via Cavette: benché a letto con la febbre, è fatto alzare e condotto nella Casa del Clero, che sorgeva proprio di fronte.
Mentre le suore erano sconvolte, lui commentava: «Non porto con me un centesimo; sono fallito, ma non vi ho tradito, piuttosto altri hanno tradito la mia buona fede. Perdono di cuore. Pregate, state unite e l’Istituto continuerà».
Destituito dall’incarico di superiore ecclesiastico, non poté più avere contatti con suor Geltrude, diventata madre generale, e con le altre suore, né di persona né tramite lettere. In mezzo a un’amarezza così grande, ebbe l’unico conforto da parte del confratello don Cesare Bonacina.
Questi gli fece presente che una sola casa delle suore non era stata coinvolta dal fallimento giudiziario: quella di Rivolta d’Adda, in provincia e diocesi di Cremona, che era stata intestata a suo fratello, don Costanzo Spinelli.
Il 4 marzo 1889, don Francesco arrivò a Rivolta d’Adda. Le suore l’accolsero subito e ascoltarono ciò che aveva loro da dire: «Sono qui per continuare l’opera con le figlie decise a seguirmi. Volete unirvi alla Madre di Bergamo? Siete libere: andate, figlie, io vi benedirò; andate e fate del bene. Se però qualcuna vuole restare con me, l’accolgo con tutto il cuore… Sono povero, poverissimo, ma lavoreremo, faremo sacrifici…». Solo una suora si trasferì in casa madre.
Intanto, anche madre Geltrude e le consorelle furono travolte dal fallimento. Anche loro dovettero lasciare Bergamo: accolte dal vescovo di Lodi, monsignor Giovanni Battista Rota. L’8 settembre 1891, con decreto vescovile, furono erette le Suore Sacramentine. Madre Geltrude professò i voti perpetui il 26 febbraio 1892 e, dopo un mese, poté ristabilire la congregazione nella casa madre di Bergamo, riottenuta grazie ad alcune donazioni.
Don Francesco chiese e ottenne di essere incardinato nella diocesi di Cremona nel marzo 1889. Poté quindi ripartire insieme alle sue figlie, che nel 1897 furono a loro volta erette in congregazione autonoma, mantenendo il nome originario di Suore Adoratrici del Santissimo Sacramento.
Don Francesco riusciva a unire la contemplazione del Mistero eucaristico alla carità verso i poveri e i disabili. A sua volta indicò alle suore quale dovesse essere il motore delle loro azioni: «Adorate con l’amore più ardente l’Augustissimo Sacramento e attingete da esso la carità a sollievo del prossimo».
Se c’era una predilezione, da parte sua, era per i malati più ripugnanti: li andava a cercare per le strade, li ripuliva e baciava le loro piaghe. Un giorno fu portata da lui una donna colpita da epilessia, con i segni evidenti della malattia: in particolare, aveva la bava alla bocca.
Don Francesco, tranquillamente, prese il proprio fazzoletto di tasca e l’asciugò. Accanto a lui c’era una suora, alla quale spiegò: «Negli infelici dobbiamo vedere Gesù Cristo. Saresti contenta se nel giorno del giudizio Egli ti dicesse: Hai avuto schifo di me?».
Mentre la congregazione aveva un nuovo sviluppo, don Francesco continuava a essere invitato in altre parrocchie per predicazioni speciali. Diede poi alle stampe un libro, «Conversazioni eucaristiche», nel quale riportava le sue riflessioni davanti al Santissimo Sacramento.
Dopo aver conosciuto l’abate benedettino Jacques Christophe Gauthey, espulso dalla Francia a causa delle leggi contro le congregazioni religiose, fece propria la spiritualità del suo Ordine: il 15 settembre 1907 professò come oblato benedettino nelle mani dell’abate, che si era stabilito, grazie a lui, nell’abbazia dell’Acquafredda a Lenno.
Il peso degli anni cominciava a farsi sentire: spesso don Francesco doveva essere trasportato con una sedia-portantina. Cercava però di non essere di peso, anche perché doveva terminare la revisione delle Costituzioni delle Suore Adoratrici.
Consapevole di essere sul finire della vita, il 9 maggio 1910 firmò il proprio testamento, nel quale, tra l’altro, rinnovò il perdono a quanti gli avevano fatto del male:
«Rendo pure grazie ai Sacerdoti che mi hanno con zelo e sacrificio coadiuvato. Protesto di amare tutti e di non avere il minimo rancore con alcuno, e a quelli che volontariamente o no hanno concorso a recarmi dispiaceri o danni, prego il Buon Signore renda loro altrettanto di bene e più di quello che mi hanno fatto di male».
Sul finire del 1912 gli fu diagnosticato un carcinoma allo stomaco. Celebrò l’ultima Messa il giorno di Natale, poi si preparò all’ultimo addio alle suore. Alle 21.00 del 6 febbraio 1913, mentre tutte gli stavano attorno, si spense tracciando il segno della Croce.
Undici anni più tardi, la sera del 14 maggio 1924, i suoi resti mortali furono traslati nella chiesa della casa madre delle Suore Adoratrici, a Rivolta d’Adda.
È stato beatificato da Papa Giovanni Paolo II il 21 Giugno 1992. Papa Francesco lo ha canonizzato il 18 Ottobre 2018.
Autore: Emilia Flocchini
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