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Il Santo di oggi – 6 Luglio – Beata Maria Teresa Ledochowska (Vergine)

La beata Maria Teresa Ledochowska nacque il 29 aprile 1863 a Loosdorf (Austria), dal conte Antonio Ledochowski, di origine polacca. L’ambiente aristocratico non la divise dal Vangelo né dai fratelli. Anzi proprio dai genitori, si può dire, che ereditò la fede. Nel 1882 si trasferì con la famiglia in Polonia. Successivamente, nel 1885, entrò a servizio presso la Corte del granduca Ferdinando IV di Toscana a Salisburgo.

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Due significativi incontri cambiarono la sua vita: con le suore Francescane Missionarie di Maria e con il Cardinale Lavigerie. Nel 1890 fonda la rivista missionaria Eco dell’Africa e nel 1891 lascia in modo definitivo la Corte. Da questo momento in poi si avvia un cammino di maturazione, che la porterà a fondare, nel 1894, l’Istituto di S. Pietro Claver. Nel 1910, ad opera di papa Pio X, ebbe il riconoscimento dell’Istituto. Morì a Roma il 6 luglio 1922.

Etimologia: Maria = amata da Dio, dall’egiziano; signora, dall’ebraico

Emblema: Giglio
Martirologio Romano: A Roma, beata Maria Teresa Ledóchowska, vergine, che si adoperò con tutte le sue forze a favore degli Africani oppressi dalla schiavitù e fondò il Sodalizio di San Pietro Claver.

Colei che i contemporanei chiamarono giustamente “la madre delle missioni africane” nacque il 29-4-1863 a Loosdorf (Austria meridionale), primogenita dei sette figli che il conte Antonio, polacco, ebbe in seconde nozze dalla contessa svizzera Giuseppina von Salis-Zizers. I genitori attesero con cura all’educazione dei loro figli, uno dei quali, Vladimiro (+1942), si fece gesuita e divenne nel 1915 Preposito Generale della Compagnia di Gesù, la beata Teresa fondò il Sodalizio di S. Pietro Claver per le Missioni Africane, e la beata Orsola, al secolo Giulia (+1939), fondò nel 1921 le Orsoline del S. Cuore di Gesù agonizzante.
Teresa, dotata di grande ingegno, fin da bambina si dedicò alla musica e alla pittura e prese parte alle lezioni che un benedettino impartiva in casa ai suoi due fratelli maggiori. Considerevole fu il profitto che ne trasse specialmente in letteratura e nelle scienze naturali. A undici anni si trasferì con i genitori a S. Ippolito, dove, con le sorelle, fece gli studi come esterna presso le Dame Inglesi, s’iscrisse alla loro congregazione mariana e ne frequentò le riunioni. Fu allora che dimostrò particolare attitudine per il dramma e la novella, materie che al termine degli studi continuò a coltivare in famiglia, con la pittura e la musica.
Fino ai quattordici anni la beata andò soggetta a scrupoli, e fino a ventidue anni si mostrò di carattere difficile, irrequieto e fantasioso perché amava l’eleganza nel vestire e le belle comparse in società, cercava il suo ideale nell’arte, nell’amore, nei viaggi, nei teatri e nei balli senza tuttavia commettere leggerezze o trascurare del tutto la frequenza ai sacramenti.
Nel 1882 Teresa si trasferì con la famiglia a Lipnica Murovana (Polonia) dove continuò a coltivare le belle arti e le lettere e, per un certo tempo, aiutò il padre ammalato nell’amministrazione del patrimonio. Per scuoterla dalla vita frivola che conduceva, Dio si servì del dolore. Essendo alta e magra, di costituzione gracile, contrasse il vaiolo, di cui suo padre morì (1885). Durante la malattia fu curata da una religiosa e dalla sorella Giulia che aspirava a farsi suora, chiese la comunione, ed esortò anche il padre a farla e cominciò a riflettere seriamente sulla vanità delle cose.
La sua salute rimase scossa sia a causa del vaiolo che le deturpò il volto, e sia a causa di un’aggressione subita da parte di un giovane mentre, da sola, si recava a passeggio. Lo sconosciuto si era dileguato all’udirla invocare S. Luigi, ma per lo spavento provato, Teresa fu costretta restare a letto per diverse settimane. Da tale spavento ebbe origine quello che essa chiamò “il suo caro male”. Più volte la settimana, specialmente d’inverno, le si gonfiavano improvvisamente le vene e l’assaliva per ventiquattro ore un mal di testa quasi intollerabile. Cercava di dimenticare i suoi dolori lavorando e misurandosi nella quantità e qualità dei cibi, ma per la debolezza talora non riusciva neppure a stare in piedi.
Rimessasi alquanto in salute, la beata abbandonò per sempre la vita spensierata fino allora condotta. Secondo la sorella Giulia in quel tempo si consacrò a Dio con il voto di verginità. Nel 1885, per non esser di peso alla famiglia, che versava in difficoltà economiche, con il consenso dello zio, il cardinale Miecislao Ledóchowski (+1902), ottenne di essere nominata dama di corte della granduchessa di Toscana, Alice Borbone di Parma, nel palazzo imperiale di Salisburgo. Per tutto il tempo che rimase a corte, pur dovendo prendere parte a feste, a balli e a cacce, tenne un contegno serio, frequentò la messa tutti i giorni e si accostò sovente ai sacramenti. Sotto la direzione del P. Ralf OFM, confessore suo e della granduchessa, s’iscrisse al Terz’ordine Francescano e ne praticò lo spirito, coltivò una speciale devozione alla Passione del Signore e lesse libri devoti.
Ciononostante Teresa non si sentiva pienamente felice. La vita di corte le pareva quanto mai vuota. Un anno dopo due Missionarie Francescane di Maria si presentarono a corte per raccogliere offerte per le loro missioni indiane. Teresa mostrò grande interesse per le opere missionarie benché non ne avesse mai sentito parlare. L’anno seguente si presentarono a corte altre due suore della stessa Congregazione per lo stesso motivo. L’interesse per le missioni si trasformò nella beata in un vivo desiderio di dedicarvisi con tutte le forze. Nel frattempo lesse una conferenza che il cardinale Carlo Lavigerie, fondatore nel 1868 della Società dei Padri Bianchi per l’evangelizzazione dell’Africa e nel 1890 della Società antischiavistica, aveva tenuto per combattere la schiavitù che ancora si praticava nell’interno del continente nero. Colpita dalla frase: “Chi ebbe da Dio ingegno per scrivere, lo ponga a servizio di questa causa”, si consigliò con lo zio cardinale, si recò il 9-8-1889 con la granduchessa a Lucerna (Svizzera) per parlare con il Lavigerie (+1892) che vi si trovava per una cura, e tutti e due l’incoraggiarono a fondare comitati per l’abolizione della schiavitù in Africa. Ella accolse l’invito e ne istituì subito quattro: a Salisburgo, a S. Ippolito, a Vienna e a Cracovia. Compose pure un dramma intitolato “Zaida” per far comprendere le terribili conseguenze della schiavitù specialmente sulla donna, e mise mano a varie pubblicazioni tra cui il periodico L’Eco dell’Africa (1889).
Per dedicarsi interamente all’opera delle missioni la Ledóchowska il 1-7-1891 abbandonò la corte con grande meraviglia e dispiacere di tutti, specialmente della mamma che sognava per la figlia splendide nozze. La beata la scusò dicendo: “Non mi ha compresa”. Si ritirò in una stanzetta delle Figlie della Carità nei pressi di Salisburgo per scrivere a favore dell’Africa, per stringere relazioni con i missionari e i loro benefattori, per dare maggiore incremento al suo periodico. Svolse questo apostolato con tanto ardore che venne chiamata “la pazza delle missioni”. Eppure non mancò, persino tra il clero, chi la giudicò male ritenendo che lavorasse soltanto per ambizione personale. In cima ai pensieri della beata, invece, non c’era che la gloria di Dio e la salvezza delle anime, e se ritenne il titolo di contessa lo fece soltanto per facilitare la sua azione in mezzo alla nobiltà.
In quel tempo la beata si recò pure a Vienna e a Cracovia per interessarsi dei comitati antischiavistici, ma avendo notato che in essi regnava la discordia, preferì lavorare da sola. Nella spedizione dell’eco dell’Africa, era coadiuvata dal sagrestano e dalla cuoca della parrocchia in cui si trovava. Per alcuni anni soffrì di ristrettezze economiche, ma le sopportò pazientemente per amore di Dio. Per vivere si serviva dell’esigua prebenda delle nobili esterne che l’imperatrice le aveva conferito il 18-12-1890 con la nomina a Canonichessa di Brùnn in Moravia. Il suo finissimo corredo lo aveva donato alle missioni, i suoi abiti di seta li aveva trasformati in paramenti sacri, al dito si era messo un semplice anello di ferro. Crescendo il lavoro, la beata concepì l’idea di fondare una società di signore che si dedicassero al sostegno delle missioni africane. Non trovando in esse sufficiente spirito di ubbidienza, alla lettura delle costituzioni dei Gesuiti capì che per dare stabilità alla sua opera era necessaria una congregazione religiosa. Si recò a Roma, il 29-4-1894 espose il suo progetto a Leone XIII, e poiché il papa l’aveva esortata a perseverare in quella “vocazione speciale” prese in affitto una casa a Salisburgo e cominciò a radunare giovani nel sodalizio di S. Pietro Claver per le missioni africane. L’opera di Madre Teresa non solo fu considerata frutto d’imprudenza, ma trovò opposizione da parte di altri centri missionari austriaci e tedeschi che non agivano per puro amore di Dio. La fondatrice non desistette dalla via intrapresa, anzi ottenne che il suo Istituto, composto anche da membri esterni e zelatori, fosse approvato l’8-4-1897 dal vescovo di Salisburgo, il cardinale Giovanni Haller. Era tanto convinta di compiere la volontà di Dio che un giorno confidò a Mons. Ugo Mioni, suo collaboratore per oltre trent’anni a Trieste e più tardi domenicano (+1935): “Se la Chiesa ritenesse opportuno di sciogliere il mio sodalizio mi rassegnerei all’istante, ma supplicherei il S. Padre che mi permettesse d’incominciare da capo”.
Durante la sua vita la beata fondò altre case a Vienna, Roma, Trento e Friburgo e succursali in numerose città. Il patriarca di Venezia, il cardinale Giuseppe Sarto, la esortò a chiedere alla S. Sede l’approvazione per il suo Istituto perché, sebbene fosse ancora poco diffuso, si prefiggeva di aiutare i missionari che lavoravano in Africa con la preghiera, la raccolta di offerte, la pubblicazione di bollettini mensili, di opuscoli e altre iniziative quali il pane di S. Antonio e il soldo di S. Pietro Claver. Nel 1899 la beata ottenne il decreto di lode della S. Congregazione di Propaganda fede; il 10-6-1904 ottenne da S. Pio X che la Madonna del Buon Consiglio e S. Pietro Claver, apostolo dei negri, fossero proclamati patroni del sodalizio; il 7-3-1910 ottenne la definitiva approvazione dell’Istituto e delle costituzioni da lei elaborate con l’aiuto di un gesuita dalla S. Congregazione dei Religiosi.

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Madre Teresa, oltre che persona intelligente, era una brava organizzatrice. Soleva dire alle sue religiose: “Dobbiamo usare mezzi umani, ma riporre in Dio tutta la nostra fiducia”. Si può dire che non passasse anno senza che per le sue missioni ideasse qualche cosa di nuovo. Nel 1897 fondò a Salisburgo la prima tipografia per la stampa, in varie lingue, di opuscoli di soggetto missionario, di vangeli, di catechismi, specialmente dell’Eco dell’Africa che nel 1898 raggiunse i 38.000 abbonati e al quale affiancò il Fanciullo negro e l’Almanacco Claveriano. In tal modo riuscì a suscitare vocazioni alla sua congregazione e a raccogliere oltre 11 milioni di lire. Da ogni parte le giungevano espressioni di ammirazione e di lode per la sua opera, ma ella ne provava disgusto. Diceva difatti a Mons. Mioni: “Sono uno strumento inutile nelle mani del Signore; non ammirate la granata che scopa bene”.
Per volere della fondatrice, l’istituto non usufruì mai delle offerte fatte dai benefattori per le missioni. Nel 1896 Mons. Mioni aveva organizzato a Trieste una fiera di beneficenza. Avendo fruttato la somma di L. 10.000 avrebbe voluto che Madre Teresa ne impiegasse una parte a vantaggio del sodalizio, ma ella si rifiutò dicendo: “Il popolo ha dato per l’Africa; al sodalizio penserà il Signore”. La stessa giustizia praticava con quanti eseguivano lavori per l’Istituto. Prima di ordinarli voleva conoscerne la spesa esatta; fissatene il prezzo e portati a termine pagava gli esecutori subito e senza pretendere riduzioni .
Per ottenere aiuti più consistenti alle missioni, Madre Teresa anziché rivolgersi a famiglie singole indicatele d’ordinario da sacerdoti, accettò il consiglio che le diede il prevosto di Nikolburg in Moravia, di tenere conferenze per fare meglio conoscere la sua opera ed economizzare così tempo e forze. Avendo avuto da Dio il dono di una parola penetrante ed efficace, intraprese faticosi viaggi per prendere parte a congressi mariani ed eucaristici, agli annuali convegni dei cattolici in Germania e suscitare nei partecipanti la sua passione per le missioni africane. I frutti che colse nelle varie città in cui parlò furono abbondanti. La beata stessa confidava alle sue collaboratrici: “Oh, come Dio mi aiuta!”. Il cardinale Haller ne apprezzava assai il lavoro e la chiamava la sua “vagabonda”.
Nella sua condotta Madre Teresa dimostrava di possedere una virtù virile. In principio della vita religiosa fece uso di cilicio e di disciplina, ma dovette presto astenersene a motivo della salute. Per la conversione dell’Africa fu lieta di poter offrire a Dio un digiuno quasi continuo, la rinuncia alle comodità della vita e alle proprie inclinazioni. Difatti, pur essendo amante del silenzio e del raccoglimento, dovette vivere in comunità; pur preferendo il lavoro di tavolino, dovette viaggiare molto per consolidare la sua opera; pur essendo di temperamento timido e riservato, fu costretta a tenere conferenze e mantenere relazioni con ogni genere di persone. Nei processi canonici Mons. Mioni attestò: “Pur avendo un’anima di artista, nei lunghi viaggi non l’ho mai potuta indurre a visitare un monumento, un’opera d’arte, né musei, né chiese artistiche. In esse ne entrava soltanto per pregare”.
Tutta la vita di Madre Teresa non fu altro che lavoro e preghiera. Quando la malattia la costringeva all’inattività teneva la corona del rosario in mano. Prima ancora del decreto di S. Pio X sulla comunione quotidiana (1905) si accostava ogni giorno al banchetto eucaristico ed esortava le sue figlie a fare altrettanto. Era fedele alla confessione settimanale. Nelle tentazioni ricorreva con fiducia al confessore senza il permesso del quale non intraprendeva viaggi, non faceva spese. Quando si trovava in sede non mancava agli atti comuni. La sua caratteristica era l’ordine, anche nei minimi particolari, ed esigeva che fosse mantenuto. Nelle conferenze che faceva alla comunità parlava sovente della necessità di tendere alla perfezione con la rigorosa osservanza delle regole. Ammoniva con carità coloro che le trasgredivano. Se talora umiliò qualche suora in pubblico per il bene comune, non si mostrò mai dura, aspra o collerica. Diventava impaziente soltanto quando le sue figlie abusavano del suo tempo che voleva dedicare al lavoro, ma se ne umiliava subito domandando loro perdono. Le stava sommamente a cuore soprattutto che tra tutte regnasse l’unione dei cuori.
Era solita dire: “Preferirei che la casa bruciasse che vedervi in discordia”. Alla sua segretaria un giorno dichiarò: “Badate di fare bene il vostro dovere perché io, nella distribuzione delle cariche, non mi lascerò guidare dal cuore”. Nell’accettare e nel dimettere postulanti e novizie la beata badava più che altro allo zelo che mostravano per le missioni e al loro spirito di umiltà. Nelle sue case l’ozio era sconosciuto, tuttavia a nessuna suora impose lavori eccessivi a danno della salute. Invece delle penitenze corporali raccomandava loro le mortificazioni inferiori, soprattutto lo spirito di povertà, dicendo: “Finché saremo povere Dio non ci farà mancare il necessario; finché osserveremo la povertà avremo anche le benedizioni del cielo”. Non insisteva perché le suore le aprissero il proprio animo, ne parlava delle confidenze che le venivano spontaneamente fatte. Benché fosse molto intelligente, chiedeva spesso consiglio alle sue figlie e specialmente agli ecclesiastici, e lo dava volentieri e saggiamente a chi glielo chiedeva.
Durante la prima guerra mondiale Madre Teresa trascorse la sua vita a Salisburgo, tormentata dalla malattia e dalla difficoltà di comunicare con i missionari dell’Africa. Anche allora però trovò il modo di pubblicare in tutte le lingue i suoi periodici e di far giungere alle missioni africane le offerte raccolte. In occasione del 25° anniversario della fondazione del sodalizio, dichiarò alla comunità riunita: “Se per qualsiasi motivo il nostro Istituto si dovesse sciogliere, io che cosa farei? Io, con la grazia di Dio, incomincerei da capo perché non conosco niente di più bello, e che valga la pena di aver vissuto quanto lavorare con Dio alla salvezza delle anime”.
Trasferitasi a Roma dopo la guerra, Madre Teresa continuò a dirigere l’Istituto con la solita energia nonostante il progressivo deterioramento della salute. Il suo stomaco ormai non sopportava più che della verdura e delle prugne cotte nell’acqua, alle quali aggiungeva un po’ di vino per ordine del medico. Attestò di lei il P. Eligio da Penne, cappuccino, confessore della comunità: “So di certo per mia scienza che pregava quasi continuamente, malgrado le sue molteplici occupazioni”. Di lei ci sono rimaste 8.000 brevi lettere in polacco, italiano, francese, inglese e tedesco, dalle quali emerge quanto fosse virilmente sollecita del bene spirituale delle sue suddite e del loro progresso soprattutto nella virtù dell’ubbidienza.
Nel 1921 Madre Teresa fu colta da febbri malariche che ne accelerarono la fine. Benché ormai ridotta a una trentina di chili, continuò fino alla fine ad occuparsi delle missioni e dell’avvenire del suo Istituto. Pochi giorni prima di morire disse alla sua assistente: “Non so se ciò sia presunzione, ma io non temo la morte”. Spirò difatti il 6-7-1922 dopo aver sorriso a lungo, con gli occhi aperti, come alla presenza di una visione. Nella camera ardente in cui fu vegliata, il fratello, P. Vladimiro Ledóchowski, celebrò per primo la Messa di suffragio. Il Card. Andrea Frùhwirth OP., dopo la visita alla defunta, disse: “Questa santa donna ci darà molto da lavorare”.
Paolo VI beatificò Madre Teresa il 19-10-1975. Le sue reliquie dal 1934 sono venerate a Roma nella cappella della casa generalizia delle Missionarie di S. Pietro Claver.




Autore: Guido Pettinati

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