Santa Giuseppina Bakhita è stata una religiosa sudanese, appartenente alla Congregazione delle Figlie della Carità; San Giovanni Paolo II l’ha proclamata santa il 1 Ottobre 2000.
La vita
Santa Giuseppina Bakhita nasce nel 1869 a Olglossa, nel Darfur, una regione a sudest del Sudan. La sua era una famiglia ricca, possedeva terreni con piantagioni e bestiame. E lei viveva felice, assieme ai genitori, tre fratelli e tre sorelle. «Non sapevo che cosa fosse il dolore», ricordava.
Ma quella stagione di felicità durò poco. Nel 1874 dei mercanti di schiavi rapirono sua sorella maggiore, due anni dopo toccava a lei identica sorte. I rapitori, due arabi, la rivendettero a un mercante di schiavi. Iniziava così una lunga drammatica odissea alla quale tentò invano di sottrarsi. Fuggendo sballottata da un paese all’altro, da un padrone all’altro. Ne ebbe ben sei di padroni, e nessuno ebbe compassione di lei. Il più cattivo fu un generale turco, che la sottopose a un vasto tatuaggio che le lasciò libero solo il volto: 114 tagli inferti con un rasoio, trattati poi con il sale per evidenziarne i segni. Un vero supplizio, e fu un miracolo se Bakhita ne uscì viva. «Il Signore mi voleva per cose migliori», commentava lei stessa.
Poi le cose cambiarono. Il generale turco vendette la ragazzina, che era tra l’altro di una struggente bellezza, a un italiano, il console Callisto Legnani, che la trattò bene. L’avrebbe anzi riportata al suo villaggio, dai suoi, solo se Bakhita, rapita piccolissima, si fosse ricordata quale fosse.
L’arrivo in Italia
Quando il Legnani lasciò l’Africa, Bakhita ottenne di seguirlo in Italia, al seguito di un amico del console, Augusto Michieli, ricco commerciante di Venezia, che la portò con sé nella villa di Zianigo di Mirano Veneto, perché facesse da babysitter alla figlioletta Alice.
I coniugi Michieli erano buona gente: lui cattolico ma assai poco praticante; lei, la signora Turina, ortodossa ma poco convinta. Alla bella ragazza di colore venne proibito di frequentare la chiesa. Con grande disappunto dell’amministratore di casa Michieli, Illuminato Cecchini, il quale, fervente cattolico, s’era, messo in testa di «convertirla». E approfittava di tutte le occasioni migliori per poterle parlare di Dio, di Gesù e della chiesa. Era a metà del suo cammino quando i Michieli ritornarono in Africa con Bakhita al seguito. Cecchini, amareggiato per non avere completato la sua opera, si affidò a Dio, e nelle mani della giovane nera partente che lo salutava aveva messo un piccolo crocifisso: «Pensaci tu, Signore».
Il Signore ci pensò. Infatti i Michieli, alla vigilia di uno dei loro frequenti viaggi d’affari in Africa, decisero di ritornare in Italia ad affidare la figlia Alice e la bambinaia all’istituto delle suore canossiane di Venezia. «Solo per qualche mese avevano detto i Michieli, poi passeremo a riprenderle per trasferirci definitivamente in Africa». Ma quando andarono a riprenderle trovarono una sorpresa: Bakhita, che nel frattempo aveva studiato catechismo e si stava preparando a ricevere il battesimo, con dolcezza, ma decisione, comunicò che non li avrebbe seguiti in Africa: «Non potrei professarvi la mia fede nel Signore», si giustificava Bakhita con la signora che insisteva considerando la ragazza «sua schiava».
Ma Bakhita la spuntò, sostenuta anche dal patriarca di Venezia, il cardinale Agostini, e dal procuratore del re, che la dichiarò libera perché la legge italiana vietava ogni forma di schiavitù. E rimase. Era il 29 novembre 1889. Per la giovane di colore iniziava una nuova vita.
Il 9 gennaio dell’anno seguente riceveva dal patriarca il battesimo con i nomi di Giuseppina, Margherita e Fortunata, e insieme la cresima e la prima comunione. Fu per lei una giornata memorabile, incredibile. La consapevolezza di essere diventata, da schiava che era e per di più negra e ignorante, figlia di Dio la sgomentava e insieme la colmava di gioia. Si rammaricava per non avere nulla da offrirgli in cambio. «Ma tu lo ami il Signore la consolava la sua catechista. Questo basta».
Il desiderio di consacrazione
Intanto, vivendo e approfondendo la sua esperienza religiosa, Bakhita maturava il desiderio di consacrarsi al Signore nella vita religiosa canossiana. Temeva però di manifestarlo ritenendo che la sua condizione di nera non avrebbe giovato alla congregazione. Quando lo fece, fu accolta a braccia aperte. Dopo tre anni di noviziato, l’8 dicembre 1896, a Verona, pronunciava i voti. Era felice. Lo stesso patriarca di Venezia, il cardinale Sarto, futuro Pio X, dopo averla esaminata, l’aveva incoraggiata nella sua scelta: «Pronunciate pure i voti le aveva detto. Gesù vi vuole. Gesù vi ama; voi amatelo e servitelo sempre così».
Madre di carità e testimone di Dio
Dopo la professione venne mandata nel convento delle canossiane a Schio, Vicenza, dove rimarrà per quarantacinque anni, edificando le consorelle per la sua umile disponibilità ad accettare e svolgere qualsiasi incombenza le venisse richiesta: in cucina, in guardaroba, in portineria, a ricamare. Si guadagnò la stima di tutti, anche fuori dal convento. Tutto questo grazie alla sua bontà, dolcezza, cordiale accoglienza, soprattutto dei poveri e dei bambini che frequentavano le scuole dell’istituto, i quali ascoltavano incantati i racconti della «madre moretta». Seppe essere per tutti una vera testimone dell’amore di Dio, che lei con un misto di familiarità e riverenza chiamava alla veneta «el me Paron».
Si occupò anche delle missioni, dei suoi negretti. Per un paio d’anni fu nel noviziato missionario di Vimercate, dal quale partiva con una consorella reduce dalla missione in Cina per recarsi in varie città d’Italia a promuovere lo spirito missionario. E la sua storia «meravigliosa», di piccola schiava, di convertita, di amata da Dio a tal punto da farla tutta sua, costituiva il nucleo centrale di ogni incontro. Due anni di viaggi, su e giù per l’Italia, che le costarono molta fatica ma durante i quali ha lasciato una scia di bontà. Lasciava a tutti questo semplice messaggio: «Siate buoni, amate il Signore, pregate per quelli che non lo conoscono. Sapeste che grande grazia è conoscere Dio». E avrebbe voluto lei stessa poter volare presso la sua gente, per far conoscere a tutti l’amore di Dio.
Visse le drammatiche esperienze di due guerre. Dalla prima ne era uscita rinvigorita nello spirito per il grande bene che aveva fatto tra i soldati feriti ricoverati negli ospedali militari, e tra la gente, per alleviarne le sofferenze fisiche e le angustie morali. Dalla seconda, invece, uscì fortemente provata nel fisico. Gli anni ormai erano tanti. Nel dicembre del 1943 con la comunità religiosa e i cittadini di Schio aveva festeggiato (nei limiti concessi dai difficili tempi di guerra) il cinquantesimo di vita religiosa. Un bel traguardo che porta inevitabilmente con sé un bel po’ di acciacchi, per lei in particolare un’artrite deformante che la obbligò prima ad aggrapparsi al bastone per muoversi e poi a ricorrere alla sedia a rotelle, e una bronchite asmatica con la tosse che le squassava il petto.
Stava male, ma non si lamentava mai. Accettava tutto con coraggiosa pazienza. Il suo pensiero andava a Gesù in croce, alla Madonna addolorata e ogni guaio diventava sopportabile. «Come sta?», le chiedeva chi andava a farle visita. «Come volo el Paron, come vuole il Padrone», rispondeva con un tono che non sapeva di rassegnazione, ma era testimonianza di fede, di bontà e di speranza cristiana.
La morte e il culto
Alla fine sopraggiunse una polmonite, che le fu fatale. Durante l’agonia rivisse i terribili giorni in cui, bambina, era prigioniera. Tanto da supplicare l’infermiera di «allargare le catene perché pesano». Poi venne la Madonna a liberarla da quegli incubi oppressivi. Si spense infatti mormorando: «La Madonna, la Madonna…», mentre il sorriso le illuminava e le distendeva il volto prima contratto dalla sofferenza.
Era l’8 febbraio 1947. La comunità religiosa e la gente di Schio si raccolsero attorno a lei in preghiera. Ognuno voleva vedere per l’ultima volta la madre moretta. La fama della sua santità, testimoniata da più di un fatto prodigioso, diede subito il via a una devozione sentita e vasta. Giovanni Paolo II l’ha iscritta nell’albo dei santi il 1 ottobre 2000.
Autore: Cristina Siccardi