Auschwitz. Lì, nel 1979, discorso di Giovanni Paolo II; nel 2006, discorso di Benedetto XVI. Lì, ieri, silenzio di Papa Francesco. A poche ore dalla sua conclusione, le immagini che più si rincorrono della kermesse polacca dei giovani cattolici sono la sua caduta a Czestochowa e il suo silenzio ad Auschwitz.
Cammina da solo tra i vialetti, si appoggia al muro delle fucilazioni, è raccolto su una sedia; e poi, su Instagram, pochissime parole: voglio misericordia e non sacrificio, abbi pietà del tuo popolo. Abbi pietà per tanta crudeltà.
Ci sono momenti in cui le uniche parole giuste da dire sono quelle non dette, ci sono momenti in cui scoprire quanto può parlare la bocca quando è chiusa. Può mandar giù lacrime, può baciare. Il male non si spiega. Il male, quando accade e si è fatto di tutto per evitarlo, si può solo starci dentro e viverlo. A mascelle serrate, a bocca chiusa. Davanti alla Shoa il credente sta peggio dell’ateo. Il credente non immaginava neanche cosa fosse credere in un Dio onnipotente che però non ferma il nazista che strappa via familiari, abiti, capelli, dignità, vita, e che ti lascia vivo mentre ti torturano fino a che ti tocca la liberazione della camera a gas. L’ateo, l’agnostico, non può immaginare cosa sia credere in un Dio che è amore e vivere contornati, immersi, affogati, nell’odio. L’ateo che c’è in me ha compassione del credente che c’è in me. Ha compassione e non lo tortura facendogli domande: gli lascia lo spazio del silenzio.
Perché il silenzio fa l’unica cosa che si può fare quando si è nel male: non dimenticare, riascoltare, visitare, sfiorare, baciare, abbracciare. Le travi, i pali, le mura dei blocchi. Le mani, le spalle, i visi, le persone dei sopravvissuti. Il silenzio è l’unica colonna sonora del dolore. Smettere di parlare non è tacere: è fare spazio. Lasciare che ciò che è troppo grande rimanga così e rimanga però in noi e con noi. La signora di 101 anni sopravvissuta ai campi di quali parole potrà mai avere bisogno? Ma il mio silenzio mi fa impregnare delle sue parole, mi fa guardare il numero del suo tatuaggio, lascia depositare tutto nella mia memoria. Per non dimenticare.
E poi, dopo il silenzio, ricominciare a parlare.
Di Don Mauro Leonardi
Articolo tratto da L’Huffingtonpost