La sera del 18 ottobre 2014, concludendo i lavori del Sinodo straordinario sulle sfide pastorali riguardanti la famiglia, Papa Francesco tenne un breve ma denso discorso, sintetizzando alcune «tentazioni» da lui notate durante il dibattito in aula. E aveva aggiunto: «Tanti commentatori, o gente che parla, hanno immaginato di vedere una Chiesa in litigio dove una parte è contro l’altra, dubitando perfino dello Spirito Santo, il vero promotore e garante dell’unità e dell’armonia nella Chiesa. Lo Spirito Santo che lungo la storia ha sempre condotto la barca, attraverso i suoi ministri, anche quando il mare era contrario e mosso e i ministri infedeli e peccatori».
L’accenno ai commentatori, o alla gente che parla, era certamente indirizzato a quel Sinodo «mediatico», che ha rappresentato il dibattito in aula come un vero e proprio derby, focalizzandolo sulla questione comunione sì o no (a talune condizioni) per i divorziati risposati. Forse, ormai alla vigilia del Sinodo ordinario, che per tre settimane vedrà discutere e confrontarsi vescovi provenienti da ogni parte del mondo sul tema della famiglia, può essere utile ricordare anche la seconda parte di quella sottolineatura del Papa: il rischio di dubitare «perfino dello Spirito Santo», garante dell’unità, sempre al timone della barca, anche in tempi di maretta.
Un altro aspetto di quel discorso, riguardava il richiamo a «vivere tutto questo con tranquillità, con pace interiore» anche perché il Sinodo «si svolge cum Petro et sub Petro, e la presenza del Papa è garanzia per tutti». Francesco ricordava che «il compito del Papa è quello di garantire l’unità della Chiesa; è quello di ricordare ai pastori che il loro primo dovere è nutrire il gregge», di accogliere, anzi di andare a trovare le «pecorelle smarrite» con «paternità e misericordia e senza false paure». Il Papa è «il garante dell’ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa».
Ricordare le parole di Francesco, che ripropongono alcuni fondamenti della fede cattolica circa lo Spirito Santo e il ruolo del Vescovo di Roma, può aiutare a leggere con maggiore distacco il dibattito mediatico molto polarizzato che precede l’inizio dei lavori sinodali: convegni, dichiarazioni, interviste, significativi «altolà» su ciò che si può o non si può fare, evocazioni dello spettro di uno scisma, richieste di bollare come «eretiche» le posizioni dell’altro, proclami di autonomia da Roma nel caso l’esito non sia quello atteso da alcuni.
Nel discorso conclusivo davanti ai padri sinodali, un anno fa Francesco parlò di varie «tentazioni». Una di queste era definita la «la tentazione del buonismo distruttivo, che a nome di una misericordia ingannatrice fascia le ferite senza prima curarle e medicarle; che tratta i sintomi e non le cause e le radici». Un’altra, era definita dal Papa «la tentazione dell’ irrigidimento ostile», cioè «il voler chiudersi dentro lo scritto (la lettera) e non lasciarsi sorprendere da Dio, dal Dio delle sorprese (lo spirito); dentro la legge, dentro la certezza di ciò che conosciamo e non di ciò che dobbiamo ancora imparare e raggiungere».
Colpiscono, a questo proposito, le considerazioni proposte in questi ultimi giorni da due esponenti del mondo accademico, don Gilfredo Marengo, ordinario di Antropologia teologica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II sulla famiglia, e il sociologo Massimo Introvigne, studioso delle religioni. Nessuno dei due certamente ascrivibile al campo cosiddetto «progressista».
Marengo ha affermato, in questo intervento su Vatican Insider, che «non convince l’atteggiamento di quanti hanno guardato con sospetto a ogni proposta che andasse oltre la semplice ripetizione dei dati magisteriali già noti, paventando pericoli per l’unità della chiesa e di fedeltà alla rivelazione».
«A questi sproporzionati timori – scrive il teologo del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II sulla famiglia – converrà ricordare due cose. Innanzitutto non si comprenderebbe la necessità di una così lunga e intensa attenzione al tema della famiglia, così come il Papa l’ha voluta, se l’esito sperato fosse semplicemente la semplice ripetizione di quanto già è stato detto. In secondo luogo è necessaria una recezione del magistero della Chiesa contemporaneo sul matrimonio e la famiglia che non dimentichi il suo peculiare profilo pastorale».
«Occorre abbandonare – osserva ancora don Marengo – un atteggiamento che ritiene il momento dottrinale (espresso dal magistero) come un corpus in sé conchiuso, buono solamente per essere applicato alla vita della persone e delle comunità e da usare per deprecare il progressivo allontanarsi della vita della società dai principi cristiani». Chi esprime quelle paure, spiega lo studioso, «sembra non rendersi conto che, dopo cinquant’anni, un bilancio elaborato secondo un computo ragionieristico di guadagni e perdite, dovrebbe a malincuore registrare un saldo finale con segno negativo».
Massimo Introvigne ha invece appena dato alle stampe un volume intitolato «Il fondamentalismo, dalle origini all’Isis» (Sugarco Edizioni, pp. 240, 18 euro), nel quale dedica alcune pagine anche al fondamentalismo cristiano e a quello cattolico, che così descrive: «Il “fondamentalismo” cattolico non interpreta in modo essenzialista e fissista la Bibbia, ma la Tradizione. Non è un fondamentalismo della Bibbia: è un fondamentalismo della Tradizione. Si può dire che il “fondamentalismo” cattolico prima inventi un testo, poi lo legga in modo fissista. Il “fondamentalismo” cattolico concepisce la Tradizione – un elemento certamente fondamentale nel modo di funzionamento del cattolicesimo – in modo diverso da come la concepisce la maggioranza dei cattolici del secolo XXI».
Per questi, continua Introvigne, «la Tradizione è una realtà certo fondata originariamente sulla testimonianza apostolica, ma vivente nella storia della Chiesa, così che, per sapere che cos’è la Tradizione ai nostri giorni, occorre rivolgersi a chi oggi guida la Chiesa, cioè al Papa e ai vescovi in comunione con lui. Il “fondamentalista” cattolico invece pensa alla Tradizione come se fosse un testo o un manuale dato una volta per tutte, suscettibile al massimo di glosse o note a piè di pagina. Di questo testo immaginario, si pone poi come custode, denunciando chiunque – fosse pure chi guida la Chiesa – dia l’impressione di non essergli fedele».
«Se la Tradizione è ipostatizzata in modo essenzialista e diventa un codice socialmente costruito sulla cui base giudicare gli atti del Papa e dei vescovi, decidendo quali vanno accolti e quali no – osserva ancora Introvigne – l’autorità della Chiesa si sposta dal Papa a chi si auto-nomina custode e interprete della Tradizione».
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Di Andrea Tornielli per Vatican Insider (La Stampa)
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