117 i fedeli cattolici che vivono a Gaza: il loro Natale è insieme agli altri cristiani e al parroco padre Gabriel Romanelli. E’ lui che racconta come si vive in quella che continua ad essere una “prigione a cielo aperto” dove però la vitalità dei cristiani si fa sentire, soprattutto con la prossimità a chi ha più bisogno. Il sogno del sacerdote? Quello di avere i permessi per tutti i parrocchiani per raggiungere Betlemme e pregare alla mangiatoia
Gabriella Ceraso – Città del Vaticano
La Striscia di Gaza ha poche luci e pochi addobbi per le strade e nelle botteghe. Il Natale si respira prevalentemente nelle case dei cristiani e in particolare della piccola comunità cattolica, 117 fedeli su più di due milioni di abitanti, e nella parrocchia latina, affidata da due mesi circa, al padre argentino Gabriel Romanelli. E’ intorno a lui e alle famiglie religiose che gestiscono istituti scolastici e centri di formazione professionale, che ruota tutta la vita e che si riuniscono i cristiani, in gran parte greco ortodossi. “L’ecumenismo qua è cosa quotidiana” ci racconta padre Gabriel, ringraziando Dio di quanto si riesce a fare a sostegno delle fasce più deboli. “Tutti noi religiosi cerchiamo di aiutare e stare vicini ai cristiani con tutti i mezzi e tra noi c’è una grande unità”. Lo ha toccato con mano l’Amministratore apostolico del Patriarcato Latino di Gerusalemme, monsignor Pierbattista Pizzaballa in visita alla Striscia dal 13 al 15 dicembre.
Il desiderio è fare di più specie per trovare i posti di lavoro cercando di arginare l’emorragia di giovani che caratterizza questo territorio dove la disoccupazione tocca la soglia impressionante del 60-70%, la povertà arriva all’80% e spesso si deve fare i conti con l’assenza di acqua, elettricità, medicine e servizi sociali.
“Vorrei che tutti potessero andare a Betlemme a festeggiare la nascita di Gesù”
Il più grande desiderio per questo Natale? Padre Gabriel non ha dubbi: “aver la chiesa vuota!” Sembra un paradosso “ma significherebbe – spiega – che tutti i fedeli con i permessi concessi da Israele sono riusciti a raggiungere Betlemme per pregare alla mangiatoia. Non dimentichiamo – sottolinea – che i cristiani di Gaza come quelli di Ramallah e di Gerusalemme sono i discendenti dei primi cristiani e loro hanno più diritto di tanti di noi di andare alla mangiatoia la notte di Natale a festeggiare la nascita di Gesù insieme agli altri cristiani e ai musulmani”.
R. – In genere questi giorni sono più tranquilli per quanto riguarda le azioni esterne di violenza. E’ un buon segno. Allo stesso tempo, parlando del Natale, non è che nelle strade si vedono gli addobbi ma soltanto nelle case dei cristiani.
Quest’anno il Papa ha dato particolare rilievo al presepe ma è sentita questa tradizione, è vissuta, è approfondita?
R. – E’ più conosciuto l’albero però in ambiente cattolico – la comunità cattolica è molto piccola – c’è l’abitudine di fare il presepe e noi cerchiamo di diffonderlo. Essendo pochi cristiani, cerchiamo di essere vicino a loro di persona o quando ci sono i giorni più difficili attraverso le telefonate, Facebook, Whatsapp…
Sappiamo delle difficoltà del territorio, quanto è cambiato? Parliamo di isolamento, disoccupazione, distruzione… Mons. Pizzaballa ha detto: “Ho trovato una realtà viva, nonostante tutto”. E’ così?
R. – Se parla del territorio, senz’altro è vivo, però con tante difficoltà: c’è più del 60-70 per cento di disoccupazione giovanile, sono cifre enormi. E’ vitale che la comunità parrocchiale sia molto viva, nonostante siamo 117 cattolici, però è un po’ il cuore di tutti i cristiani. La gran parte sono greci ortodossi che pure vengono in Chiesa… Veramente l’ecumenismo è una cosa di ogni giorno.
Voi portate avanti progetti per il lavoro ma poi ci sono tantissime strutture che lavorano con i bambini, con i malati, con gli anziani, con le famiglie, in tal senso la vostra è un’epserienza molto forte?
R. – Sì, ringraziando il Signore, tutti noi religiosi a seconda della vocazione e del carisma cerchiamo di dare una mano, ci sosteniamo. C’è un grande rapporto, una grande unità. Uno dei progetti molto importanti è quello di trovare, di creare posti di lavoro perché la tentazione di andare via, fuori, è molto alta in tutta la gioventù della Striscia. Ci hanno detto che l’ultimo anno, almeno 25 mila palestinesi musulmani sono partiti da Gaza e noi sappiamo pure che anche un numero consistente di cristiani sono usciti. La frontiera con l’Egitto è aperta nonostante che non escono tante persone però tanti di loro non rientrano più.
Questo è pesante tanto quanto l’isolamento che ha sempre contraddistinto un territorio che è stato definito tante volte, anche noi, come “la più grande prigione a cielo aperto”. E’ ancora così?
R. – E’ così, questi giorni ero a meditare su questa realtà, il salmo 120 adattandolo alla situazione di Gaza: “Da dove verrà l’ausilio?” Il soccorso, l’ausilio verrà dalle mura, dai tunnel, dal mare… Il nostro ausilio viene nel nome del Signore, viene dall’alto, dal Signore. Perché quando un’ingiustizia è così grande, così forte, e dura tanto nel tempo, allora il grido, l’angoscia, le preghiere dell’oppresso raggiungono il Signore e il Signore darà quello che vuole, quando vuole, come vuole. Noi dobbiamosolo pregare per tutti, che il Signore dia la pace a tutti, però una pace salda sulla giustizia.
Cosa ha più a cuore in questo Natale a Gaza?
R.- Io desidererei, in questo Natale a Gaza, avere la chiesa vuota. Sembra strano, ma in realtà significherebbe che Israele ha concesso i permessi perchè i cristiani possano visitare il presepe a Betlemme . Non dimentichiamo che i cristani di Gaza, come quelli di Ramallah, di Beit Sahour e di Gerusalemme sono i discendenti dei primi cristiani e loro hanno più diritto di tanti di noi di andare, la notte di Natale, alla mangiatoia. Quindi questo vorrei, che tutti potessero andare a festeggiare con gli altri cristiani e i musulmani la nascita di Gesù.
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