Eppure qui a Roma noi li abbiamo visti: i bus continuavano a scaricarli ininterrottamente. Ieri mattina alle 7 c’era già la fila verso san Pietro.
Un giovane sente puzza di tecnica, di finto, di inganno, di riciclato, lontano un miglio. Non è che se dici “app” o paragoni Gesù al wi-fi con cui avere campo, attiri la loro attenzione. Loro non vogliono qualcuno che gli dica dove andare, neanche la direzione del Paradiso vogliono che gli indichiamo; loro vogliono qualcuno che abbia davvero fatto prima di loro quella strada che ora indica loro. Qualcuno che non li aspetti al traguardo ma faccia avanti e indietro con loro. Per loro. Sulla stessa strada. E che la faccia – e l’abbia fatta – sul serio.
I ragazzi hanno un vocabolario povero, hanno poche parole, non perché sono stupidi o ignoranti ma perché hanno poca vita da raccontare. Crescendo e vivendo avranno bisogno di raccontarsi e allora troveranno le parole.
Non ascoltano il Papa perché dice “app” o “campo” ma perché regala parole, pensieri, racconti, della sua vita, di una vita che ha vissuto: la vita di un uomo con tanta vita da raccontare. E loro ascoltano. Insomma un prete, un educatore, un genitore, non creda che basti dire parole conosciute dai ragazzi per farsi ascoltare dai ragazzi: bisogna dire parole che raccontano davvero la propria vita. Se il Papa dice di non farsi rubare la felicità, non è perché usa le parole giuste ma perché sa cos’è la felicità, e lo sa perché sa cos’è il dolore. Se dice di non “perdere campo” e di stare “collegati con Gesù”, non è che le cose funzionano per la parola “campo” ma è per la parola Gesù vissuta davvero. Puoi parlare davvero del miele e dire che è buono, solo se hai provato davvero il miele. Papa Francesco non comunica con i giovani perché ha un buon ufficio comunicazioni ma perché dice cose sue vere. Perché, per esempio, ha davvero provato a fare delle telefonate per tenere contatti con degli amici: per questo i giovani l’ ascoltano. Se sei autentico accade che il giovane cresce, cammina e l’anziano accompagna, se no puoi dire tutte le parole giuste che vuoi, e il giovane te lo perdi. Il Papa indica la vita che lui stesso vive. Parla di confessione confessando e, due anni fa, si era fatto vedere lui stesso a confessarsi. Parla di perdono perdonando. Parla di misericordia accogliendo. Parla di gioia sorridendo. Guardate le foto mentre confessa.
All’Angelus augura ai giovani di tenere la vita, la loro propria vita nelle mani e nel cuore. Tenere è un verbo che ricorda la memoria. Un ragazzo di 16 anni ha solo 16 anni di vita da tenere a mente e nel cuore ma non è poco, è la sua identità. La memoria è necessaria per rimanere fedeli a sé stessi. Per ricordarsi della vita che abbiamo vissuto e che abbiamo incontrato. E a noi? Quanta vita ci entra e rimane ancora nel cuore e nella mente alla nostra età? Quando parliamo della nostra di identità cristiana, quante tacche di memoria abbiamo ancora?
Di Don Mauro Leonardi
Articolo tratto da IlSussidiario.net
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