Avviene che il vescovo di Anversa Johan Bonny – che diversi osservatori danno come futuro presidente della conferenza episcopale belga – rilasci un’intervista al periodico fiammingo De Morgen e che ci siano cattolici che lo accusino di non essere cattolico. Ecco le dichiarazioni:
Dobbiamo cercare in seno alla chiesa un riconoscimento formale della relazione che vivono numerose coppie bisessuali e omosessuali. Come nella società esiste una diversità di istituti giuridici per le coppie, così anche bisognerebbe ci fosse una varietà di forme di riconoscimento nella chiesa.
In realtà, il vescovo non ha nessuna intenzione di discostarsi dal magistero, ma si sforza semplicemente di immaginare qualche possibile soluzione alla questione delle unioni omosessuali. Per esempio pensa a un istituto, diverso dal matrimonio, che le riconosca e che – parrebbe di capire – a suo modo di vedere potrebbe avere anche qualche forma di riconoscimento all’interno della chiesa, senza specificare però se tale riconoscimento formale avrebbe una forma di carattere liturgico.
La sua argomentazione nasce dalla convinzione che “l’etica cristiana difende le relazioni durevoli in cui esclusività, lealtà, e cura vicendevole sono centrali”. Pur essendo lontani, cioè, dai tre beni che tradizionalmente costituiscono il matrimonio cattolico – indissolubilità, uno con una, e apertura alla vita – c’è lo sforzo evidente di custodire il positivo che c’è in ogni relazione vera. La chiesa sa che, provenendo da Dio, qualsiasi forma di relazione vera è una cosa buona. Se un omosessuale aiuta un altro omosessuale, se vuol bene a un altro omosessuale, non solo non c’è niente di male ma, anzi, è una cosa buona. Non è un matrimonio, però bisogna evidenziare il buono che c’è in ogni relazione e trovare parole nuove che parlino di una relazione felice. Qualsiasi forma relazionale di vero aiuto è positiva. So che gli aggettivi “vero” e “felice” possono essere intesi in un modo o nell’altro, ma so anche che non è possibile alcuna vera discussione costruttiva se non si parte dal riconoscimento del qualcosa – anche solo un pizzico – di verità e di felicità che c’è in ogni relazione.
Bonny è stato collaboratore del cardinale Kasper al Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e le sue dichiarazioni muovono da convinzioni profonde. A settembre scorso aveva scritto una lettera chiara e precisa al Vaticano per chiedere di usare un linguaggio appropriato quando si parla di omosessualità, senza arroccarsi su posizioni anacronisticamente difensive.
Non è l’unico presule con queste convinzioni. Non molto tempo fa il vescovo di Mazara del Vallo monsignor Mogavero si era esposto in modo molto simile dichiarando che “le unioni civili riguardano i diritti di persone che nella relazione di coppia e sociale chiedono garanzie per il loro vivere quotidiano. Se ciò non comporta omologazione, non vedo ostacoli alle unioni civili. Lo Stato deve rispettare e tutelare il patto che due conviventi hanno stretto tra loro. E la Chiesa deve accoglierle e accompagnarle pastoralmente senza emarginarle con l’etichetta di persone che vivono nel peccato”. Aveva aggiunto che “gli omosessuali non sono né pervertiti che vanno guariti né individui da confinare ai margini della società e della Chiesa. La sensibilità pastorale deve esprimersi con l’accoglienza e la valorizzazione di ogni contributo” per concludere che “nessuno può dire a un gay che è fuori dalle nostre comunità. O che la sua unione lo esclude dalla Chiesa”.
Sono tentativi, sforzi di comprensione ancora non completi, che certamente mostrano come nella chiesa cattolica ci siano pastori che cercano di seguire da vicino Papa Francesco. Questi non perde occasione per spronare a uscire dal “si è sempre fatto così” per correre il rischio della libertà: “Esiste sempre nel nostro cammino esistenziale una tendenza a resistere alla liberazione; abbiamo paura della libertà e, paradossalmente, preferiamo più o meno inconsapevolmente la schiavitù”. Queste, le parole pronunciate dal vescovo di Roma nell’ultima omelia dell’anno, quella del Te Deum del 31 dicembre 2014.
Addirittura, per essere ancora più chiaro, Francesco si è lanciato in una citazione di Roberto Benigni, protagonista poche serate fa dello show su Raiuno interamente dedicato ai dieci comandamenti: “Diceva qualche giorno fa un grande artista italiano che per il Signore fu più facile togliere gli israeliti dall’Egitto che togliere l’Egitto dal cuore degli israeliti”.
Da quanto ho appena scritto però, parrebbe che forse, destinatari delle parole del Papa, non siano tanto i vescovi – come a volte si pensa – ma, altri cattolici che, paradossalmente, proclamano essere “non cattolici” i vescovi cattolici.
Stimolata dal Papa, la chiesa sta percorrendo la strada del Sinodo e vuole, come Gesù, custodire tutto ciò che c’è di buono nell’uomo: ecco il semplice segreto che ha spinto 6 milioni di persone ad incontrare, a Roma, Papa Francesco nel 2014. Percorrere questo cammino è faticoso perché il cammino della liberazione è faticoso.
Aveva ragione il documento preparatorio del Sinodo quando diceva che le posizioni estreme sia di accondiscendenza che di intransigenza ostacolano la fatica di chi vuole essere fedele al Magistero e, al contempo, misericordioso nei confronti di chi vive unioni nel medesimo sesso (cfr Instrumentum laboris n. 113).
Davvero, non capisco il paradosso di chi, in nome della retta dottrina e del magistero, dichiara “non cattolici” vescovi in comunione col Papa: cioè “non cattolici” proprio i garanti di quella comunione di cui il Papa li priverebbe se fossero “non cattolici”.
Di Don Mauro Leonardi
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Non è la Chiesa a non voler accogliere gli omosessuali, ma loro a non voler accogliere il Vangelo. La libertà si trova nel Vangelo, ma taluni preferiscono rimanere schiavi del loro vizio. La castità non è imposta esclusivamente alle persone consacrate a Dio, ma riguarda ognuno nel proprio ambito, anche gli eterosessuali che si sono uniti in matrimonio dovrebbero astenersi dall'atto sessuale fine a se stesso, per solo piacere, quando non è deliberatamente aperto alla vita.
Complimenti a Don Mauro, parole difficili da dire, coraggiose ma altamente condivisibili che mantengono la tradizione e lo spirito cristiano con apertura ad un problema sociale che non può continuare ad essere ignorato.