Il 31 agosto 2012 moriva il Cardinale Martini.
Oltre 10 anni fa queste parole venivano pronunciate dal cardinal Carlo Maria Martini, cin un incontro fatto a Napoli a un gruppo di giovani studenti di teologia:
“Dobbiamo imparare a convivere come diversi non solo per cultura, ma anche per etnia e religione. Dobbiamo imparare a convivere come diversi, non distruggendoci e non ghettizzandoci, neppure soltanto tollerandoci, ma fermentandoci e vivificandoci a vicenda”.
Le sue parole, in modo lucido, coraggioso e saggio, hanno sempre cercato di trovare le vie del dialogo e della convivenza pacifica. Anche in quella occasione tracciavano un cammino e prospettavano orizzonti diversi da quelli che oggi ci troviamo a vivere non senza una certa preoccupazione.
In questi giorni provocano allarme le immagini in cui la polizia negli Stati Uniti identifica e rimpatria tutti gli immigrati irregolari. Desta grave preoccupazione l’idea di voler separare famiglie che vivono il paradosso di essere costituite da genitori in posizione di irregolarità e figli nati invece sul suolo americano e quindi cittadini.
E le cose non cambiano se guardiano alle vicende di casa nostra. L’azione del Consiglio dei Ministri, che attraverso decreti legge attua disposizioni urgenti sul fenomeno migratorio, ci lascia amareggiati.
Ciò che sembra sfuggire ai politici di tutte le latitudini è che il mondo di oggi è lo specchio di quello di domani: è il mondo della convivenza tra persone di diverse culture, religioni ed etnie
, faticosamente ricercata, che richiede la lungimirante corresponsabilità della politica e l’impegno civile di ogni cittadino, per non subire battute di arresto e arretramenti.
Ancora in un discorso al Comune di Milano, il 28 giugno del 2002, il Cardinal Martini diceva:
“Mai infatti come in questo tempo stiamo sperimentando, più ancora che la forza, la debolezza delle nostre città. Eventi drammatici che hanno toccato altre metropoli, il riproporsi recente di oscure minacce e più in generale la complessità dei processi in atto nei grandi agglomerati urbani sembrano indurre a un senso di sgomento di fronte alla difficoltà di reggere alle sfide che pone la grande città… La città è invece luogo di una identità che si ricostruisce continuamente a partire dal nuovo, dal diverso, e la sua natura incarna il coordinamento delle due tensioni che arricchiscono e rallegrano la vita dell’uomo: la fatica dell’apertura e la dolcezza del riconoscimento. Ambrogio le caratterizzava secondo la nota formula: cercare sempre il nuovo e custodire ciò che si è conseguito”.
Sempre il cardinal Martini nello stesso discorso continuava:
“Ed è soprattutto ai deboli che va il nostro pensiero. È inutile illudersi: la storia insegna che quasi mai è stato il pane ad andare verso i poveri, ma i poveri ad andare dove c’è il pane. Scegliersi l’ospite è un avvilire l’ospitalità, diceva Ambrogio. Ma ciò non significa un’accettazione passiva, subita e dissennata, né l’accoglimento solo di quell’ospite che sia simile a noi: il magnanimo ospitante non teme il diverso perché è forte della propria identità. Il vero problema è che le nostre città, al di là delle accelerazioni indotte da fatti contingenti, non sono più sicure della propria identità e del proprio ruolo umanizzatore, e scambiano questa loro insicurezza di fondo con una insicurezza di importazione”.
Dovremmo fare tesoro di queste parole profetiche, che tracciano un cammino e individuano delle priorità, pena il rischio di smarrire la nostra umanità.
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