E’ ancora meravigliosa, ma non la riconosco più perché è diventata cattiva, intollerante. La decadenza è prima di tutto morale, magari il problema fossero solo i rifiuti…»
«Sono tornato a Roma da sconfitto». Flavio Insinna è durissimo sulla sua città. Ha appena finito di girare a Torino la fiction La classe degli asini e ora è a Roma sul set del nuovo film di Leonardo Pieraccioni. «Odio le generalizzazioni, ma se devo basarmi su un mese di passeggiate, il confronto con Roma è impietoso. Ho lasciato una città gentile ed elegantissima. Qui lo scenario è completamente diverso».
– Com’è?
«È quello di una città ancora meravigliosa, ma che non riconosco più perché è diventata cattiva, intollerante. Era una città che risolveva sempre tutto con un sorriso e una battuta, oggi invece se provi a suonare il clacson a uno che ti ha tagliato la strada rischi la pelle. Questa maledetta crisi ha dato il passaporto, non a tutti per fortuna, per dire: le cose mi girano male, quindi mors tua vita mea e se me tocchi me giro come un cobra
. In metropolitana mi sono alzato per far sedere una suora straniera. Lei ha fatto tre passi indietro, spaventata. Ho fatto fatica a farle capire che non volevo farle del male, ma solo compiere un gesto che dovrebbe essere normale. Per non parlare dei turisti. A Torino alla stazione ho lasciato una fila perfetta di taxi; a Roma ho trovato un assalto alla diligenza: “Ahò, salì lì. ’A maschio, ’ndo devi annà?”. La stazione, come l’aeroporto, è il biglietto da visita della città. Che figura facciamo con chi magari arriva dall’altra parte del mondo? Quando leggo titoli come: “Pagano 400 euro per due caffè in via Veneto” o “Tassista porta turista a Ostia e gli dice di essere a Pompei”, come romano mi sento ferito. Dove sono finiti la nostra dolcezza, lo spirito d’accoglienza, l’ironia e l’autoironia? La decadenza di Roma è prima di tutto morale, magari il problema fossero solo i rifiuti…».– Alludi al tweet di Alessandro Gassmann che invita ogni romano a darsi da fare per pulire la città?
«Va benissimo, Alessandro è un amico. Ed è vero, dobbiamo riscoprire il senso di appartenenza alla città che abbiamo smarrito. Ma il cambiamento deve avvenire prima di tutto dall’alto, da chi ci amministra, perché i cittadini hanno bisogno di buoni esempi. Se un poveraccio sente che il direttore generale dell’ospedale Sant’Andrea viene arrestato per una storia di mazzette date alle pompe funebri, poi è facile che pensi: ma perché devo continuare a pagare le tasse? Siamo stati troppo poco esigenti con chi ci deve amministrare. Ho apprezzato tantissimo l’amico Alessandro quando a Ballarò ha detto a Giorgia Meloni: “Io vi giudico quanto mi pare perché vi pago”. Dovremmo scendere in piazza ogni giorno per chiedere che le cose vadano meglio. Ricordo il sindaco con cui sono cresciuto, Luigi Petroselli: ci vorrebbero figure come lui, per le quali la maggiore ricompensa per il loro lavoro era vedere i propri cittadini stare bene».
– Marino non ha questa statura?
«Penso che se uno si ritrova impantanato con gente che non riesce a gestire ha solo due soluzioni davanti a sé: o alza le mani, si arrende e se ne va, o fa come Gesù con i mercanti dal tempio e trova la forza per cacciarli tutti».
– Lui dice che ci sta provando…
«Qui non c’è più tempo per provare. Non bastano gli sforzi, ci vogliono i risultati. Per carità, libera Chiesa in libero Stato, ma in un sogno io consegnerei le chiavi di questa città a papa Francesco, che ha sempre un sorriso per tutti, ma al momento buono sa dare anche delle belle strigliate. E darei in mano tutta la sanità a Gino Strada, un altro che quando c’è da fare, da decidere davvero, non si tira mai indietro».
– Tra pochi mesi Roma ospiterà il Giubileo. Potrebbe essere l’occasione per uno scatto di orgoglio?
«Lo spero. Non vorrei che invece si trasformasse in una “romanella”, come diciamo noi, in una bella imbiancata, dove poi tutto torna come prima. Mi piacerebbe che questo evento spirituale si trasformasse in un vero spartiacque morale. Questa città deve ritrovare, per citare la commedia di Pirandello, il piacere dell’onestà. Una volta, lavoravo all’estero con una troupe di romani, il regista ci disse: “Sapete qual è il vostro guaio? Avete il ma che ce frega, ma che ce importa incorporato”. Invece a me no. A me me importa, “I care”, come diceva don Milani».
di Eugenio Arcidiacono per Famiglia Cristiana
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