L’uomo quando arriva il buio della “notte” e con essa lo smarrimento, la paura e l’angoscia del pericolo della propria vita si sente insicuro e vulnerabile. La sua insicurezza e fragilità vengono a galla e spesso prendono il sopravvento su di lui. Questo capita in circostanze tragiche come la guerra, atti gravi di terrorismo con centinaia di vittime, o quando siamo toccati dalla morte di qualche nostra persona cara.
Ci sentiamo bambini indifesi e fragili, che hanno bisogno di segni d’amore. Nella notte buia sono la luna e le stelle, doni del Signore, che possono darci orientamento e coraggio. Nelle crisi della vita un segno d’amore, tra gli altri, che ci può dare coraggio e forza per ricominciare, è il ricordo dei santi. Anch’essi doni del Signore, anch’essi segni visibili del suo amore e della sua sollecitudine per ciascuno di noi. Questi segni ci sono: spetta a noi ricordarli, invocarli e imitarli.
“Il Signore le accende, nel cielo lassù”: così recita l’inno a Santa Rita da Cascia citato all’inizio. Nel firmamento dei santi e delle sante della Chiesa, Rita è certamente una stella di prima grandezza. Vissuta ben sei secoli fa, ma viva ancora oggi, ricordata, invocata, pregata nei casi più disperati da migliaia di devoti non solo in Italia ma in varie parti del mondo.
Anni fa è stato fatto un sondaggio in Italia per sapere chi erano i santi e le sante più “famosi”. Tra i primi risultarono San Francesco, Sant’Antonio e San Giovanni Bosco. Tra le colleghe sante invece la prima della lista risultò proprio santa Rita da Cascia. Come si vede il tempo logora tutto ma non il ricordo di questa santa italiana. I suoi devoti, meglio sarebbe dire le sue devote perché sono le donne che sentono una devozione particolare per lei, sono tra i più attivi e convinti specialmente durante i pellegrinaggi non solo al santuario di Cascia ma in altri sparsi in Italia e all’estero. A Torino, per esempio, ce n’è uno, molto bello e molto frequentato.
Non è facile tracciare un profilo storico di santa Rita. Ci sono molti punti oscuri, e spesso le notizie di una certa attendibilità si mescolano alle leggende, che si formarono durante i secoli in diverse stratificazioni. Rita (Mancini era il suo cognome) nacque a Roccaporena vicino a Cascia verso il 1381 da genitori ormai anziani e senza figli. Fin da fanciulla si distinse per la sua bontà, laboriosità e pietà. Arrivata all’adolescenza Rita voleva farsi monaca, ma i genitori si opposero e la fecero maritare. Il prescelto si chiamava Paolo di Ferdinando. Non era proprio farina da fare ostie: impetuoso e aggressivo, arrogante e senza riguardo per nessuno, era riuscito senza troppi sforzi a farsi molti nemici.
subito la violenza e l’aggressività. Ma lei non si dette mai per vinta, nella speranza di poterlo ammansire e “convertire” a maniere più gentili, prima o poi. La sua pazienza, bontà, mansuetudine, preghiera ed eroica capacità di sopportazione alla fine vinsero. Dopo ben 18 lunghi, dolorosi anni. Quando sembrava tutto impossibile, il possibile divenne realtà. E arrivò la sospiratissima conversione del marito. Un vero “miracolo” visto il soggetto in questione. Ma la sua conversione non significava automaticamente anche il perdono da parte dei nemici che lui si era fatto in quegli anni e la cancellazione dei torti subiti. Questi, una notte, su una strada buia regolarono il conto finale: lo assalirono e lo uccisero. Rita dovette così affrontare anche il dolore di questa morte tragica. Lei perdonò gli assassini del marito, ma non altrettanto fecero i due figli, che ancora adolescenti giurarono vendetta. Rita insomma non riuscì a convincerli al perdono. Si narra che pregò Dio di impedire che si macchiassero di questo delitto rischiando così l’inferno, e se era necessario di toglierli dal mondo…
Non si è certi che questa fu la preghiera di Rita nei riguardi dei suoi due figli smaniosi di vendetta. È certo però che morirono non molto tempo dopo, probabilmente per qualche malattia. Caso non infrequente allora. Così Rita libera da legami familiari poteva coronare il sogno di farsi monaca. Ma all’inizio le porte del monastero di Cascia rimasero chiuse perché non fu accettata.
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Durante questo periodo, ormai vedova e sola in casa, una volta ritornando da una visita ad una ammalata incontrò sul ciglio della strada una donna sfinita e lacera, distesa sulla neve. Veniva da Spoleto da dove era fuggita per salvarsi dai maltrattamenti del marito. Era anche stata aggredita e derubata dai ladri. Rita la portò a casa sua, e le donò l’unica veste che aveva. La persuase poi a tornare dal marito, di cui le assicurò la conversione. Questo spiega la particolare devozione che hanno le donne che patiscono ingiustizie e maltrattamenti di vario genere nell’ambito familiare, ma non vogliono lo stesso rompere il vincolo matrimoniale. Forse proprio per la storia personale Santa Rita è considerata la migliore avvocata e confidente di queste donne in difficoltà.
Le sue preghiere incessanti alla fine vinsero e Rita entrò nel monastero di Cascia, intitolato a Santa Maddalena (che oggi si chiama di Santa Rita). “Nel monastero visse per quarant’anni alternando la preghiera e la contemplazione a visite a malati e lebbrosi, e cercando spesso di pacificare le fazioni che si combattevano nella cittadina umbra. Ma il cuore della sua giornata erano la preghiera e la meditazione della Passione di Cristo. Finché un giorno, mentre era in contemplazione estatica davanti al Crocefisso, sentì una spina della corona del Cristo conficcarsi nella fronte e produrle una profonda piaga purulenta e fetida, costringendola ad una perenne segregazione: era il 1432. Soltanto in occasione di un pellegrinaggio a Roma per perorare la causa di canonizzazione di san Nicola da Tolentino ottenne che la ferita si rimarginasse temporaneamente. Ormai l’immedesimazione alla Croce di Cristo era totale, e in croce visse gli ultimi quindici anni, logorata dalle fatiche e dalle sofferenze, ma anche dai digiuni e dalla pratica dei flagelli…” (A. Cattabani).
Alla santa di Cascia viene associato un fiore in particolare: la rosa. È il simbolo della devozione a lei. Perché? Si narra che una cugina le fece visita, e Rita, ormai morente, espresse un ultimo desiderio: una rosa dal giardino che aveva lasciato. Si era d’inverno. La parente ubbidì, andò e trovò nell’orto coperto di neve una rosa fiorita. Gliela portò e Rita tutta felice la regalò al suo Crocefisso.
Quando morì, il 22 maggio 1447, ci fu un scampanio “spontaneo” cioè miracoloso di tutte le campane del paese. Cominciava così dal cielo l’attività taumaturgica di santa Rita.
Venne dichiarata santa da Leone XIII nel 1900, prima donna ad essere dichiarata tale nel Grande Giubileo di inizio del ventesimo secolo.
Nel primo centenario di questa canonizzazione, durante il Giubileo del 2000 davanti ad una grande folla di devoti della santa in Piazza San Pietro Giovanni Paolo II si chiedeva: “Ma quale è il messaggio che questa santa ci lascia? È un messaggio che emerge dalla sua vita: umiltà e obbedienza sono state la via sulla quale Rita ha camminato verso un’assimilazione sempre più perfetta al Crocefisso. La stigmate che brilla sulla sua fronte è l’autenticazione della sua maturità cristiana. Sulla Croce con Gesù, ella si è in un certo senso laureata in quell’amore, che aveva già conosciuto ed espresso in modo eroico tra le mura di casa e nella partecipazione alle vicende della sua città” cioè cercando di portare pace fra le varie fazioni contrapposte e in lotta fra loro.
Mentre nei primi testi agiografici si sottolineava la vita di Rita nel monastero, cioè la sua vita di religiosa. Dopo la canonizzazione si è insistito, per una precisa scelta pastorale di quegli anni e che vale ancora oggi, sulla prima parte: si mise in risalto la Rita moglie e madre, che a costo di grandi sacrifici e sofferenze personali tiene unita la famiglia e riafferma l’indissolubilità del matrimonio cristiano. Il culto a santa Rita non ha mai conosciuto crisi, anche durante il ventennio fascista. Subito dopo la II Guerra Mondiale venne esaltata come eroina contro il divorzio. “Ma anche oggi il suo culto conosce un grande successo, dal momento che questa devozione sembra fornire una risposta ed un conforto alle fatiche e alle tensioni sopportate da un vasto strato – soprattutto femminile – della popolazione” (L. Scaraffia).
Giovanni Paolo II disse ancora: “La santa di Cascia appartiene alla grande schiera delle donne cristiane che «hanno avuto significativa incidenza sulla vita della Chiesa, come anche su quella della società». Rita ha bene interpretato il «genio femminile»: l’ha vissuto intensamente sia nella maternità fisica che in quella spirituale”. Forse la migliore definizione della santità di Rita da Cascia la troviamo nella iscrizione che è stata posta sull’urna contenente i suoi resti mortali: “Tucta allui se diete”. “Si diede tutta a Lui” cioè a Cristo, anche nel momento della crocifissione, che è la cosa più difficile.
di Mario Scudu SDB
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