Categorie: Testimonium

“Io che lapidavo le donne in Afganistan”

Farhad Bitani

“Il mondo non sa che cosa succeda veramente in Afghanistan oggi. Non lo sa e deve saperlo. È ora di dire basta ai mujaheddin, che usano il nome dell’Islam per arricchirsi e tenere sottomesso il popolo”. Ahmad Farhad Bitani si infiamma spesso mentre racconta la sua storia. Quello che più colpisce sono gli occhi, spesso accesi di rabbia e sdegno, per quello che ha potuto vedere nei suoi 27 anni di vita. Ahmad non è un afghano qualunque: figlio di un generale di corpo d’armata che ha combattuto i talebani, studia all’ Accademia militare di Modena e diviene capitano dell’esercito afghano. Tornato in patria lavora come segretario militare, ma nel 2011 viene ferito in un attentato. Fugge quindi in Italia dove ottiene l’ asilo politico. Il suo messaggio non è però di odio, né di vendetta: “per cambiare il mio Paese, dobbiamo cambiare la mentalità della gente”. Nella Kabul dei talebani, la gente si stordiva con lo spettacolo della violenza, si inebriava del sangue e della sofferenza altrui. Farhad era come loro, esattamente come le migliaia di adulti e di ragazzi, tutti maschi, che spontaneamente, senza alcuna costrizione, il venerdì si recavano allo stadio per assistere alla massima punizione dei peccatori, la lapidazione,col senso di esaltazione di chi partecipa a un’opera di giustizia crudele ma necessaria. Tanto che già a 12 anni aveva partecipato alla lapidazione di due donne!

Questo fino a che Farhad non assistette ad un’esecuzione particolare: un padre che teneva per mano, stringendole come in una morsa, due bambine di 8 e 10 anni, mentre di fronte a loro veniva condotta, legata e coperta dal burqa, la madre di quelle bambine, condannata alla lapidazione per un’accusa di adulterio. Il volto contratto dall’odio dell’uomo, le faccine sconvolte dal dolore, pallidissime e rigate di lacrime delle ragazzine. Le guardie che sciolgono la madre e le permettono di abbracciare per l’ultima volta le bambine. Le guardie che strappano le ragazzine da quell’abbraccio. Le voci disperate della madre e delle figlie che implorano di non essere separate, gli insulti del padre e marito che augura l’inferno alla donna. La pioggia di pietre lanciate dai volonterosi carnefici usciti dal pubblico contro la vittima indifesa, sotto gli occhi delle bambine. “Io non avevo mai provato sensi di colpa, quelle crudeltà mi sembravano il giusto prezzo pagato dai peccatori per i loro misfatti. Non ho mai visto nessuno esprimere pietà per le vittime nello stadio: quando un condannato non moriva subito, la gente inveiva perché l’esecuzione fosse portata a termine. Ma i volti di quelle bambine mi sono rimasti dentro”.

Ascoltiamo attentamente le sue parole:

Ahmad, sembrerebbe che dalla caduta dei talebani nel suo Paese si respiri un’aria più democratica. “È quello che vi raccontano: l’ Afghanistan non è libero. L’attuale governo Karzai è composto da talebani e dagli altri mujaheddin che li avevano combattuti. Tutta gente che ha fatto e continua a fare milioni con la mafia internazionale, mentre il 95% del popolo fa la fame. E questo usando l’Islam a loro fine. Sa che cosa succede se un mujaheddin vede un afghano bere alcol?”. No, che cosa succede? “Viene frustato! Mentre loro e i loro figli bevono, sono corrotti, vanno in vacanza in alberghi di lusso in Arabia Saudita. I miliardi degli aiuti internazionali non vanno al popolo. Anche mio padre era mujaheddin, abbiamo un sacco di soldi, e io stesso quando sono venuto in Italia ero un fondamentalista: non salutavo le persone perché per me erano degli infedeli”. Poi che cosa è successo? “Varie occasioni mi hanno cambiato. Ricordo un giorno, qui in Italia, ero in treno e vedo un ragazzo che capisco essere del mio Paese. Lo saluto nella mia lingua ma lui fa ripetutamente finta di non capire. Poi gli suona il telefono e lo sento parlare afghano. “Perché mi hai mentito?” gli chiedo. Lui scoppia a piangere dicendo: “Mi vergogno di essere afghano”. E mi racconta di aver visto sua sorella violentata da un figlio di mujaheddin, e poi uccisa. Nessun tribunale accettava la denuncia ed era scappato. Ho detto: “Che schifo di popolo siamo!”. Di che cosa ha bisogno il suo Paese? “Bisogna convincere il popolo, cambiarne la mentalità entrando nelle sue difficoltà”. La sua famiglia, i suoi amici, che cosa dicono della sua posizione? “Mio padre è arrabbiato, i miei vecchi amici dicono che sono matto e che sono diventato cristiano, ma io mi arrabbio: “No, io sono musulmano, ma non sono un mujaheddin che usa il nome dell’Islam!”. Io prima non riuscivo a guardarmi allo specchio, ora nel mio cuore sto bene: questo mondo non è nostro, e quando andiamo via dobbiamo rispondere a qualcuno”.  DonSa

La pietra pronta per essere scagliata durante le esecuzioni

 

 

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