Tante volte ci chiediamo come si può diventare santi e come tanti credenti sono diventati santi. Dalla storia della Chiesa, conosciamo tanti uomini, donne , bambini, che hanno amato il Signore fino ad essere riconosciuti santi. Alcuni li conosciamo perché sono vicini a noi: padre Pio, Madre Teresa di Calcutta, Giovanni Paolo II, Giovanni XIII., ecc.. Accanto ai nomi conosciuti e con i quali abbiamo grande familiarità, ci sono dei cristiani che abbiamo visto più da vicino e che noi –anche se l’ufficialità della Chiesa non li ha portati agli onori degli altari-, reputiamo “santi”. E’ la gente comune che con i piccoli gesti di ogni giorno ha reso testimonianza al Signore Gesù. Anche loro fanno parte di quella moltitudine immensa che nessuno poteva contare di ogni popolo, nazione, lingua in cammino verso l’Agnello. Quando mi trovo a fare visita agli amici, ed entro nelle case, trovo sempre ed immancabilmente l’immaginetta di Padre Pio, della Madonna, statuine di Giovanni Paolo II, qualche reliquia di santi sconosciuti. Con orgoglio sono presentati: “loro mi hanno protetto”, “porto sempre nel portafoglio l’immaginetta”. La fede semplice è il canale privilegiato per raggiungere Dio. La santità è patrimonio dei semplici, ai quali è promesso il regno futuro. La Chiesa resiste agli assalti del maligno, con l’aiuto di tanti volti sconosciuti di fedeli che ogni giorno in ginocchio intercedono per la salvezza dei credenti. Vorrei presentare a voi tre volti di santità, diversi tra loro, ma accomunati da un’unica passione: Amare Dio negli uomini per condurli a salvezza:
1-. Tra i santi vi sono anche militari di ogni tempo, che hanno testimoniato l’amore per Dio. Noi non li conosciamo, ma sentiamo che ci appartengono. Hanno vissuto e combattuto perchè l’Italia fosse la nostra casa: libera, giusta, serena. E perchè il mondo fosse migliore. Si sono dedicati al loro dovere con umiltà e dedizione, fino al sacrificio della vita. Rileggendo la vita di un grande e noto cappellano militare, Don Carlo Gnocchi, non si può non rimanere colpiti e commossi da certi passaggi autobiografici che testimoniano la bontà e la fede semplice e concreta dei militari. Durante la ritirata di Russia -si legge-, egli portava Gesù Eucaristia sempre con sè, e i suoi uomini lo sapevano. Racconta di un ufficiale che, passando frettoloso, gli chiese: “Hai il Signore?, “Si” – gli rispose Don Gnocchi – “allora dammelo da baciare”!
2-. Riporto l’articolo di M. Agostini pubblicato dall’Osservatore Romano il 28 Dicembre 2013 “sulle memorie dal sottosuolo delle isole Solowki”. In quel luogo alcuni sacerdoti a costo della vita celebravano il sacrificio della Messa con ardore e devozione. La loro testimonianza è per la Chiesa di oggi un grande monito. Come trattiamo le cose di Dio? Amiamo l’Eucarestia? Come celebriamo i santi misteri? Leggiamo la loro testimonianza: «Nel Mar Bianco, dove le notti sono bianche per sei mesi all’anno, l’Isola grande delle Solowki sorge dall’acqua con le sue candide chiese contornate dalle mura del Cremlino. In quel chiarore sembra non esservi peccato. È come se la natura, là, non l’abbia ancora raggiunto nel suo sviluppo: in questo modo Prisvim sentì le isole Solowki. Mezzo secolo dopo la battaglia di Kulikovo e mezzo millennio prima della Gpu [la polizia segreta] i monaci Savvataj e German attraversarono il mare di madreperla su una fragile barchetta e ritennero santa l’isola priva di animali rapaci. Con essi ebbe inizio il monastero di Solowki. Sorsero le cattedrali della Dormizione della Vergine e della Trasfigurazione, la chiesa della Decapitazione di san Giovanni Battista. La terra di Solowki risultò non solo santa ma ricca, capace di nutrire molte migliaia di abitanti (…) L’idea della guerra. Non è davvero possibile, in fin dei conti, che irragionevoli monaci vivano semplicemente, su una semplice isola. Mentalità carceraria. Ci si possono rinchiudere criminali importanti e c’è già chi farà da guardia. Non gli impediremo di occuparsi della salvezza della loro anima, ma intanto possono sorvegliare i nostri prigionieri. Pensò forse a tanto Savvatij quando approdò all’isola santa?». Così Alexander Solženicyn, in Arcipelago Gulag, descrive la nascita del sistema concentrazionario sovietico alle Isole Solowki (Arcipelago Gulag 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa III-IV, Milano, 1995, pp. 27-31).
Nel 1920 il monastero divenne l’archetipo dei lager di Lenin e con Stalin, nel 1929, una prigione. Sul suo modello se ne apriranno altri in Russia e in Europa. Vi furono internati i “nemici della rivoluzione”, tra questi il clero ortodosso, quello cattolico e gli intellettuali. Il freddo, la fame, i lavori forzati, le malattie, le fucilazioni, tra il 1923 e il 1939 condussero a morte quasi un milione di persone. Verbali, resoconti, per decenni coperti dal segreto, affiorano raccontando di «quest’epoca tremenda. Tanto tremenda che ciascuno deve rispondere di sé stesso»
(Pavel Florenskij). I Fondi Russia e Pontificia Commissione Pro-Russia dell’Archivio Storico della Segreteria di Stato brulicano di “memorie dal sottosuolo”, memoriali di dolore e morte, ma anche di redenzione, riscatto e speranza. Il memoriale Mosca e Solowki, riassunto e florilegio dei ricordi di padre Donato Nowicki circa la persecuzione dei cattolici russi di rito orientale a Mosca e circa la deportazione di un certo numero di essi alle isole Solowki, narra la sofferenza sopportata con fede, coraggio e dignità, da un gruppo di sacerdoti, religiose e laici cattolici tra il 1922 e il 1938. L’autore, arrestato il 12 novembre del 1923, fu ordinato sacerdote clandestinamente proprio sull’isola centrale dal beato Boleslaw Sloskan e morì in Polonia il 17 agosto 1971. Nelle chiese c’è corrispondenza fra esterno e interno: «Tramite l’ardore visibile dall’esterno il cielo discende sulla terra, viene introdotto nel tempio e ne diventa quel coronamento dove ogni cosa terrena viene coperta dalla mano dell’Altissimo, benedicente dalla volta azzurro-cupo del cielo» (Evgenij Nikolaevîc Trubeckoj, Contemplazione nel colore, Milano 1977, p. 8-9). Anche all’epoca tremenda del delitto e della barbarie alle Solowki, le cupole d’oro delle cattedrali della Dormizione della Vergine e della Trasfigurazione splendevano ogni giorno di Bellezza alla luce del sole. Come enormi ceri accesi, i campanili rifulgevano fra le distese nevose continuando a rimanere un remoto richiamo della città di Dio benché il loro interno fosse divenuto un “tritacarne” di destini. Forse alludeva a questo Evdokimov quando scriveva che «la Bellezza è un enigma, e se è vero che la bellezza salverà il mondo, Ippolit — un personaggio dell’Idiota di Dostoevskij — chiede di precisare “quale bellezza”. La bellezza, nel mondo ha il suo doppio. Anche i nichilisti amano la bellezza… come pure l’assassino Pëtr Verchovenskij» (Pavel Evdokimov, Dostoevskij e il problema del male, Roma 1985, p. 81). In quelle isole molti uomini non si accontentarono della propria integrità e indipendenza, a loro non bastò puntare a salvare l’umano nell’uomo, ma salvarono il senso stesso della vita contro il caos montante e l’assurdo: i monaci che riuscirono a creare nella dura natura del Mar Bianco un paradiso, i martiri che resero presente Cristo e umana e divina la vita nell’inferno del lager.Al centro del memoriale padre Nowicki pone, quasi come atto fondativo della solidarietà spirituale che strinse i martiri e confessori della fede nell’arcipelago, una circostanza precisa: «Ci riunimmo per la prima volta alla cappella di San Germano il giorno di Natale del 1925; e da allora ogni domenica e ogni giorno di festa noi siamo tornati con grande gioia e riconoscenza verso la Provvidenza Divina». Pensare al Natale del 1925 può far bene anche a quello di oggi. «La persecuzione dei cattolici russi cominciò nel 1922 e il primo gruppo arrivò a Solowki nel giugno del 1924. Nell’isola di Kondo furono trattati relativamente bene, come prigionieri politici». Qui «padre Nikolas Alexandrov, che era molto attaccato alla Santa Eucaristia, cominciò a pensare al modo per celebrare la Santa Messa, ma siccome mancava l’antimension [specie di corporale contenente le reliquie per il Rito orientale] non saliva l’altare». Dieci mesi dopo da Kondo furono trasferiti nel campo di concentramento dell’isola centrale, non più come prigionieri politici ma come controrivoluzionari puniti per delitti di religione (Tzerkowniki) e assegnati ai lavori forzati. Con grandi restrizioni, fu concesso l’uso della cappella di San Germano. La inaugurarono, appunto, il giorno di Natale del 1925, solo con la preghiera, giacché mancava l’antimension. Alla fine di maggio del 1925 giunse la notizia che la Santa Sede aveva concesso il privilegio dell’uso del corporale latino in caso di assenza dell’antimension «purché il celebrante della prima Messa si unisse col pensiero alle reliquie dei Santi della chiesa più vicina. Allora [padre Nicolas] cominciò a celebrare. Pieno di zelo verso il Mistero dell’Eucaristia egli si alzava, malgrado le fatiche della giornata tutta occupata dai lavori forzati, verso le cinque del mattino e andava alla cappella distante due chilometri e mezzo. In inverno era buio e la strada completamente coperta di neve. La nostra cappella mancava di tutto, ma abbiamo messo tutto lo zelo per ornarla di ciò che era necessario al culto e per abbellirla. Si costruì un altare, si fece restaurare l’icona della Santa Vergine. Il lavoro fu fatto da uno dei nostri parrocchiani che conosceva la pittura. Le suore confezionarono tutti i paramenti per il culto. All’inizio avevamo un solo parato rosso, ma due anni dopo ne avevamo quattro completi di colore diverso».
Nel campo fiorì la preghiera, sbocciarono le vocazioni e si operarono conversioni. «Nell’estate del 1925 arrivò il primo prete di rito latino padre Leonard Baranowski; anche lui non poté celebrare la Santa Messa dato che era impossibile soddisfare esattamente tutte le esigenze della liturgia e delle rubriche». Le suore confezionarono allora i paramenti per il rito latino e un cattolico tedesco costruì la macchina per fare le ostie. Non fu trascurato nulla di ciò che il rito prescriveva: quando tutto fu pronto, allora cominciò. Per tali sacerdoti martiri e confessori della fede la Messa era il bene più prezioso al mondo: era il luogo dove Dio assumendo la carne dell’uomo nasceva di nuovo, saliva il Calvario per offrirsi in sacrificio e risorgere. Lì dove l’uomo in carne e ossa non valeva nulla, lì dove di diritti dell’uomo nessuno parlava, questi uomini avevano piena coscienza che la Liturgia è diritto di Dio. I sacerdoti difendevano in tutto e per tutto questo diritto anche a costo di essere scoperti e fucilati all’istante. Il Messale, che codificava il diritto di Dio che avevano ricevuto in dono, lo applicavano con grande amore in quei luoghi di odio, di orrore, di ghiaccio e di morte. Un bell’esempio per noi che non abbiamo questo genere di costrizioni e abbiamo tutta la possibilità di celebrare la Santa Messa con tutta la solennità e la ricchezza del culto richiesta dalla Santità di Dio. La vita era difficile, ma «l’idea di abbandonare una lotta che appariva ineguale la respingemmo. Sapevamo che non avremmo resistito alla depressione morale che invase dopo qualche tempo molti deportati a Solowki, se non ricorrevamo alla Santa Eucaristia, che sola poteva assicurare le forze necessarie per resistere. A quella situazione di depressione opponemmo la fede nella Provvidenza, confidando nelle forze che venivano dal Santo Sacrificio e dallo spirito di carità che ci univa in una sola famiglia».
Nell’estate del 1927 aumentò il numero dei sacerdoti cattolici deportati, orientali e latini. La gran parte dei sacerdoti celebrava ogni giorno, organizzati in turni, nella cappella o nelle camere. Annota padre Nowicki: «Ringrazio Dio, d’essere stato alle Solowki. Molte volte ho sentito in quel luogo di sofferenza come un soffio del cielo, e veramente ho vissuto momenti di profondissima gioia. Noi seguivamo il principio domenicano: vedere tutto con gli occhi della fede, essere sempre nella gioia, servire la verità e gioire di essa in ogni momento». In questa situazione padre Nowicki ricevette il suddiaconato dall’Esarca Leonid Feodorov, anche lui deportato. Per l’ordinazione diaconale e sacerdotale si attese l’arrivo di monsignor Boleslaw Sloskan: «Desidero così ardentemente di tenere il mio Salvatore nelle mie mani e di offrirlo per la salvezza delle anime in questi tempi terribili». L’ordinazione avvenne il 5 settembre del 1928 alle 5 del mattino. «Arrivai con l’abito laico, solo in cappella indossai la talare. Il vescovo non aveva né mitra né pastorale; tutto si svolse nella più grande semplicità e povertà che ricordava le catacombe; avevamo la percezione che la Grazia riempiva la nostra povera cappella e comprendemmo bene le parole del Salvatore: “Io sono con voi fino alla fine dei tempi”. Alle Solowki, il Signore è stato con la sua Chiesa. Il 7 settembre la solennità fu ancora più commovente. Non ho potuto trattenere le lacrime di gioia quando monsignor Boleslaw mise le sue mani sul mio capo pronunciando le parole Accipe Spiritum Sanctum e quando dopo di lui gli altri preti, che avevano sofferto per la fede, fecero lo stesso. Fui intimamente convinto che la grande forza, grazie alla quale io potevo servire Dio in prigione, era la Messa». La Gpu si rese conto che non riusciva a deprimere il morale e che i cattolici prendevano le loro forze dalla liturgia. Vietarono, allora l’uso della cappella di San Germano. Le celebrazioni continuarono nella clandestinità delle stanze, ma il 19 gennaio del 1929 una retata tolse ciò che serviva al culto. Si salvò quel che era nascosto.«Allora chiesero l’uno all’altro se dovevano continuare a dir messa sotto il costante pericolo di rappresaglie — continua padre Nowicki — l’Esarca disse: “Ricordatevi che le Messe che noi diciamo a Solowki potrebbero essere le sole che dei preti cattolici dicono in Russia e per la Russia”». Continuarono a celebrare nonostante la vita fosse durissima: di notte sottoposti a rumore continuo, di giorno ai lavori forzati che consistevano nel trainare, come cavalli, dei carri per 7-10 chilometri. Dopo la Pasqua del 1929 furono trasportati nell’isola di Anzer. Si ritrovarono con grande gioia ancora insieme a Froitzhaia e iniziarono da capo a dir Messa; dapprima nella foresta, poi nel sottotetto di una delle baracche dove abitavano. «L’inconveniente era che in essa non si poteva stare in piedi, tanto era bassa. Dicemmo Messa sempre in ginocchio, tre per volta, dando la possibilità così a un gran numero di celebrare ogni giorno». Ad Anzer celebravano «con l’intenzione di riparare davanti a Dio tutto il male che si faceva in Russia. Gli agenti bolscevichi si resero conto di questa determinazione; uno di loro un giorno disse che era inutile la lotta con noi perché “Dove c’è un prete cattolico, c’è una Messa”». Continuavano le perquisizioni e gl’interrogatori. «Nei primi giorni di luglio del 1932, dopo aver sotterrato gli oggetti di culto che non potevamo portare, fummo inviati a Leningrado per essere da qui trasferiti in Polonia». I trasferimenti erano delle espulsioni, attraverso salvacondotti, ottenuti come scambio di prigionieri. In silenzio operava la Pontificia Missione di Soccorso voluta da Pio XI, fin dal 1921, per alleviare le sofferenze delle popolazioni della Russia e dell’Ucraina sotto il giogo comunista e colpite dalla fame. Nei mesi di ottobre e novembre del 1937 la maggior parte del clero cattolico russo e i fedeli che erano rimasti alle Solowki insieme agli ortodossi e agli altri furono giustiziati in una grande esecuzione di massa. Commenta padre Nowicki: «Oserei affermare che dal 1924 al 1932 in tutti i nostri sforzi di celebrare il Santo Sacrificio per farne il centro della vita religiosa, noi abbiamo agito con spirito di fede. Perché tutta la forza della fede cattolica consiste nel non sottomettersi allo spirito dei nostri tempi, nel non piegarsi davanti ai forti di questo mondo, ma cercare d’essere obbedienti alla volontà di Dio e di servirlo come lui desidera. È consolante riconoscere che ovunque, sempre e in tutte le circostanze della vita, il cristiano può con l’aiuto della Grazia, che non manca mai, cantare la lode di Dio anche in queste terribili Isole di Solowki». Il memoriale di padre Nowicki ci fa guardare al Natale da una prospettiva insolita: alle Solowki la discesa del Verbo nel bianco dell’Ostia appariva avvolta dalla coltre immacolata della neve d’inverno, e perforava il ghiaccio delle coscienze di carcerieri e carnefici, loro stessi prigionieri nella terra dello sterminio. Al sacrificio redentore della Pasqua si mescolava ogni giorno il sangue dei martiri e dei confessori; Natale e Pasqua, Incarnazione e Redenzione, vita e morte e di nuovo vita nella liturgia si fondono. Nella terra bella delle Solowki, che la santità dei monaci aveva reso simile al paradiso, e che l’arroganza dell’ideologia aveva trasformato nel più brutto dei mondi possibili, si attuava la discesa della Bellezza che salva il mondo e lo riscatta. Questa discesa appariva umiliata e sconfitta, invece era germe di rinascita, era Il seme sotto la neve (cfr. Ignazio Silone). Molti dei prigionieri ne avevano piena coscienza. Perciò alla messa non rinunciarono mai: era riscatto anche per chi non lo sapeva, era espiazione per chi non lo immaginava, era la Redenzione del mondo intero. Tutto ciò indissolubilmente congiunto alla gioia che viene dalla bellezza della vittoria definitiva del Dio-uomo sull’uomo fiera, gioia cui diamo spazio col nostro personale sacrificio”.
3-. Per concludere, la storia del Seminarista Rolando Rivi -(vorrei ricordare come Faniglia Cristiana, il periodico cattolico più diffuso in Italia, non ha dedicato (secondo me) al giovane seminarista nemmeno la copertina)-, raccontata da Cristina Siccardi: «Domani un prete di meno», questa la motivazione che venne data dal commissario politico della formazione partigiana garibaldina che uccise nel 1945 il seminarista Rolando Rivi di 14 anni. Ci furono molte vittime fra il clero italiano durante la Seconda guerra mondiale e la guerra civile. Vittime dei nazisti, come don Giuseppe Morosini (1913-1944), accompagnato al supplizio dal Vescovo che lo aveva ordinato sacerdote, il futuro Cardinale Luigi Traglia (1895-1977), oppure come tanti sacerdoti e parroci assassinati dai partigiani e militanti comunisti, anche oltre il 25 aprile, come don Umberto Pessina (1902-1946). Scrisse il Vescovo di Reggio Emilia, Beniamino Socche (1890-1965), nel suo diario: «…la salma di don Pessina era ancora per terra; la baciai, mi inginocchiai e domandai aiuto (…). Parlai al funerale (…) presi la Sacra Scrittura e lessi le maledizioni di Dio per coloro che toccano i consacrati del Signore. (…) Il giorno dopo era la festa del Corpus Domini; alla processione in città partecipò una moltitudine e tenni il mio discorso, quello che fece cessare tutti gli assassinii. Io ̶ dissi ̶ farò noto a tutti i Vescovi del mondo il regime di terrore che il comunismo ha creato in Italia». In Emilia Romagna e soprattutto nel «Triangolo della morte» (Bologna, Modena, Reggio Emilia) perirono barbaramente 93 sacerdoti e religiosi; la maggior parte a seguito delle vendette dei «rossi». Fra le vittime anche Rolando Rivi, colpevole di indossare la talare. Rolando Maria Rivi nacque il 7 gennaio 1931 a San Valentino, borgo rurale del Comune di Castellarano (Reggio Emilia), in una famiglia profondamente cattolica. Brillante e vivace, di lui si diceva: «o diventerà un mascalzone o un santo! Non può percorrere una via di mezzo». Con la prima Comunione e la Cresima divenne maturo e responsabile. Rolando, ogni mattina, si alzava presto per servire la Santa Messa e ricevere la Comunione. All’inizio di ottobre del 1942, terminate le scuole elementari, entrò nel Seminario di Marola (Carpineti, Reggio Emilia). Si distinse subito per la sua profonda fede. Amante della musica, entrò a far parte della corale e suonava l’armonium e l’organo. Quando stava per terminare la seconda media, i tedeschi occuparono il Seminario e i frequentanti furono mandati alle loro dimore. Rolando continuò a sentirsi seminarista: la chiesa e la casa parrocchiale furono i suoi luoghi prediletti. Sue occupazioni quotidiane, oltre allo studio, la Santa Messa, il Tabernacolo, il Santo Rosario. I genitori, spaventati dall’odio partigiano, invitarono il figlio a togliersi la talare; tuttavia egli rispose: «Ma perché? Che male faccio a portarla? Non ho voglia di togliermela. Io studio da prete e la veste è il segno che io sono di Gesù». Questa pubblica appartenenza a Cristo gli fu fatale. Un giorno, mentre i genitori si recavano a lavorare nei campi, il martire Rolando prese i libri e si allontanò, come al solito, per studiare in un boschetto. Arrivarono i partigiani, lo sequestrarono, gli tolsero la talare e lo torturarono. Rimase tre giorni loro prigioniero, subendo offese e violenze; poi lo condannarono a morte. Lo condussero in un bosco, presso Piane di Monchio (Modena); gli fecero scavare la sua fossa, fu fatto inginocchiare sul bordo e gli spararono due colpi di rivoltella, una al cuore e una alla fronte. Poi, della sua nera e immacolata talare, ne fecero un pallone da prendere a calci. Era venerdì 13 aprile 1945″.
I martiri del tempo moderno-. La Chiesa Italiana, passata la disastrosa bufera della grande guerra, e mettendo insieme notizie, testimonianze, scritti, verificando ed approvando virtù e miracoli ottenuti per la loro intercessione, ha provveduto ad elevare alla gloria degli altari o avviando le cause per la beatificazione, molti di questi suoi figli, martiri per la fede, uccisi con le armi o lasciati morire nei famigerati campi di sterminio. Si citano alcuni: S. Massimiliano Maria Kolbe (1894-1941), frate conventuale francescano polacco; beato Giuseppe Kowalsky († 4 luglio 1942), salesiano polacco; santa Edith Stein (1891-1942), carmelitana olandese di origine ebrea; beato Tito Brandsma (1881-1942), carmelitano olandese; beato Marcello Callo (1921-1945), laico cattolico francese; beato Secondo Pollo (1908-1941), sacerdote italiano, cappellano degli Alpini; servo di Dio Salvo D’Acquisto (1920-1943), brigadiere dei carabinieri; servi di Dio Flavio Corrà (1917-1945) e Gedeone Corrà (1920-1945), fratelli veronesi, giovani d’Azione Cattolica; servo di Dio Gino Pistoni (1924-1944), partigiano d’Ivrea, giovane d’Azione Cattolica; servo di Dio Giuseppe Rossi (1912-1945), parroco di Castiglione d’Ossola.
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